DISASTRI AMBIENTALI ?!?
"Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
PARLIAMO DI MAFIA VERDE.
Ci siamo mai chiesti se e quanto convenga al cittadino fare la raccolta differenziata della spazzatura, anziché buttare il “tal quale” nel cassonetto?
La raccolta e lo smaltimento dei rifiuti ha un costo per la comunità: per le aziende di raccolta e per l’ecotassa di smaltimento alle discariche.
Il riciclaggio è più complesso dello smaltimento in discarica o negli inceneritori, cui non si sostituisce, ma che ne limita comunque l'utilizzo. Si parla di sistema di riciclaggio riferendosi all'intero processo produttivo, e non soltanto alla fase finale; questo comporta la raccolta differenziata dei rifiuti, passaggio fondamentale del processo. Per realizzare una raccolta differenziata efficace è di grande importanza la fase di differenziazione attuata dai singoli utenti. Il riciclaggio apre un nuovo mercato, in cui nuove piccole e medie imprese recuperano i materiali riciclabili per rivenderli come materia prima o semilavorati alle imprese produttrici di beni. Un mercato che si traduce pertanto in nuova occupazione. Se al ricavo effettuato dalla vendita dei materiali riciclati si destinasse anche il risparmio effettuato dalla mancata raccolta e smaltimento dei medesimi materiali, vi sarebbe un incentivo per nuovi posti di lavoro e una raccolta più efficace porta a porta. Invece le amministrazioni comunali, anziché programmare una raccolta intelligente e vantaggiosa dal punto di vista economico, la disincentivano, invitando i cittadini alla raccolta differenziata, senza diminuire, però, (anzi si aumenta), il costo TARSU pro capite. Probabilmente non è solo incompetenza, ma un rapporto losco di affari e corruttela, che non deve essere tranciato tra amministratori ed aziende di raccolta e smaltimento.
Non solo. Ci siamo mai chiesti chi decide gli aumenti e i ribassi delle nostra bolletta della luce?
Si tratta dell’Autorità per l’energia e il gas (AEEG), competente nella determinazione delle tariffe della luce e del gas. Non sono più Eni e neppure Enel a fissare il prezzo e le accise che andiamo a pagare, come spesso erroneamente ci comunicano i diversi call center. La AEEG con scadenza trimestrale pubblica sul suo sito diverse delibere contenenti i valori aggiornati delle componenti che andranno ad imbellettare la nostra bolletta. La bolletta italiana, anche se ai più non piace e non si fa capire, può almeno definirsi democratica, poiché sia a nord sia a sud i suoi costi rimangono invariati: c’è un’unica tariffa nazionale regolata. I costi della bolletta cambiano a seconda dell’utenza: pagherete la tariffa D2 se siete un consumatore residente con fabbisogno casalingo che non supera i 3 kW di potenza. Nel caso invece non siate residenti oppure nel caso i vostri consumi domestici superino una capacità di 3 kW pagherete automaticamente una tariffa più cara, chiamata tariffa D3.
Ma andiamo ad analizzare le voci segrete della bolletta: si parla di costi di trasporto, prezzo energia ed accise, ma in realtà le voci sottintese sono molte di più.
Quando accendiamo la luce, in realtà paghiamo:
una quota potenza, che rappresenta un fisso all’anno da moltiplicare al valore della propria potenza casalinga; il valore di tale quota varia a seconda della tariffa utilizzata;
una quota fissa, un fisso da pagare una volta all’anno;
una quota energia, ancora un fisso da pagare in base ai propri consumi, a copertura dei costi relativi alle infrastrutture dedicate al servizio di trasmissione, di distribuzione e di misura;
un prezzo energia, che è la componente che ci interessa di più, poiché va a coprire i costi di approvvigionamento dell’energia elettrica. Quando i fornitori di energia elettrica ci parlano di sconti si riferiscono solo a questa componente. Questo costo influisce per il 60% sull’intera bolletta della luce. E’ solo su questa voce che si devono fare i calcoli per eventuali sconti derivanti da impianti fotovoltaici domestici;
il prezzo dispacciamento, un piccolo costo che si riferisce alla gestione della trasmissione giornaliera di energia;
la componente Disp.BT, che va a coprire ulteriori costi del dispacciamento;
la componente UC1 che copre i costi dovuti all’acquisto dell’energia elettrica, tale componente non viene pagata se si è già passati al mercato liberalizzato.
Ora seguono le componenti chiamate oneri generali di sistema che incidono per l’8% sulla bolletta:
la componente UC3 è prevista per la perequazione dei costi di trasmissione e di distribuzione;
la UC4 è per le imprese elettriche minori;
la componente MCT è a favore dei siti che ospitano centrali nucleari e impianti del ciclo del combustibile nucleare, fino al definitivo smantellamento degli impianti (anche se in realtà ora non si parla più di smantellare ma di ricostruire centrali nucleari);
la AS è una componente introdotta il 1° ottobre 2008 per compensare le agevolazioni previste per quei clienti che usufruiranno della tariffa sociale;
la A2 è un’ulteriore componente per lo smantellamento delle centrali nucleari;
la A3 è per la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili;
la A4 copre i tariffari speciali, previste per esempio per le Ferrovie dello Stato;
la A5 è per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo;
infine la A6 è dovuta ai costi sostenuti dalle imprese in seguito alla liberalizzazione. Tale componente è al momento uguale a zero.
E ancora le tasse chiamate imposta erariale e accisa comunale che vanno a coprire il 14% dei costi totali della bolletta. E infine c’è l’immancabile l’Iva del 10% - 20%. È stata una lunga apnea, ma ora possiamo leggere con occhi più consapevoli la nostra bolletta della luce, e comunque capire che i costi fissi, rimangono tali, mentre solo i costi variabili, diminuiscono con l’uso del fotovoltaico, salvo che non diventa un onere il suo mancato uso.
La truffa del fotovoltaico.
La psicosi del risparmio energetico ha scatenato la disperata ricerca della fonte energetica alternativa che consente di liberare i cittadini da questa schiavitù. Tra gli investimenti maggiormente pubblicizzati da una rete di imprese, associazioni e banche figura come primario quello dell'impianto fotovoltaico, godendo di un sistema di incentivazione particolare: il conto energia. Il caro petrolio ha lanciato la psicosi del risparmio energetico e ha scatenato la disperata ricerca della fonte energetica alternativa per uscire dal circolo vizioso dei rincari insostenibili. Cominciano così ad accreditarsi sempre più le fonti di energia alternative, sostenute da una politica promossa dall'Unione Europea e dagli stessi governi di incentivi per abbattere le emissioni di CO2 nell'atmosfera, come sancito dal Trattato di Kyoto. Tra gli investimenti maggiormente pubblicizzati da una rete di imprese, associazioni e banche figura come primario quello dell'impianto fotovoltaico, godendo di un sistema di incentivazione particolare. In particolare, il Decreto Ministeriale del 19 febbraio 2007, ha previsto una procedura amministrativa in virtù della quale viene concesso una forma di finanziamento, mediante il pagamento ad una tariffa fissa, l'energia prodotta mediante il proprio impianto fotovoltaico. In tal modo, il Ministero dell'Ambiente decide di trasferire al proprietario dell'impianto, nonché assegnatario del progetto di finanziamento, una cifra annuale commisurata alla capacità energetica dell'impianto, remunerando l'elettricità prodotta dall'impianto per un certo numero di anni. Stiamo parlando del progetto "conto energia" che va a ripagare con un piano di ammortamento l'acquisto degli impianti già acquistati, funzionanti e connessi alla rete elettrica di distribuzione della casa, predisponendo degli appositi contatori che indicano non solo l'energia consumata ma anche quella prodotta. Ovviamente viene prevista anche la possibilità di poter vendere alla rete nazionale energetica il surplus prodotto, acquistando un credito nei confronti dell'Enel. La norma in sé sembra conveniente e allettante, considerando che riconoscerebbe ad una famiglia media di 4 componenti, che costruisce un impianto di 4 Kw, un finanziamento di 2500€ all'anno, a cui occorre aggiungere il risparmio energetico derivante dal mancato pagamento di bollette energetiche e gas.
Di fatto, per applicare tale norma è stato costruito un contorto sistema che vede imprese, banche e assicurazioni coinvolte in una rete viziosa allo scopo di trarre ovviamente un guadagno dall'incentivazione statale ad acquistare impianti fotovoltaici. I soggetti promotori del progetto sono il più delle volte società, spesso con una struttura multilevel, che si fanno carico delle pratiche di progettazione ingegneristica e civile dell'impianto, nonché del montaggio e del collegamento dello stesso alla rete di distribuzione interna e nazionale. Costruiscono a tal fine una rete di agenti che - come i nostalgici rappresentanti degli elettrodomestici e casalinghi - propongono al cliente la costruzione di un impianto fotovoltaico a costo pari a zero, grazie alla possibilità di usufruire degli incentivi statali. In realtà, in una seconda fase del colloquio, l'agente spiega che al momento dell'acquisto dell'impianto, viene sottoscritto un "mutuo chirografario" di 20 anni, ad un tasso del 5-6%, grazie al quale la Banca anticipa l'intera somma del costo dell'impianto e poi si rifà sulle somme trasferite dal Ministero.
Il punto critico viene allo scoperto proprio esaminando questo "piccolo" particolare, in quanto l'acquisto dell'impianto implica direttamente la sottoscrizione del mutuo, ma non necessariamente l'attribuzione degli incentivi statali, la cui concessione si ha solo dopo che l'impianto diventa funzionante e deve comunque scontare la valutazione delle condizioni esistenti. Nel momento in cui, dunque, acquistate l'impianto verrà subito acceso il mutuo, che non sarà collegato alla pratica inoltrata presso il Ministero: i due contratti vengono ad esistere in momenti diversi, e le vicende dell'uno non posso influire l'esito dell'altro. In altre parole, qualora lo Stato non conceda il finanziamento o interrompa il trasferimento perché "le quote energetiche" sono state tutte aggiudicate, il mutuo non cesserà di esistere e incomberà sul soggetto che lo ha sottoscritto, unico e solo debitore "chirografario", ossia responsabile personalmente e con i suoi beni. Nel meccanismo è stata prevista anche una forma di "copertura assicurativa" in caso di furto o di guasto dell'impianto, che potrebbero portare all'interruzione dei trasferimenti dello Stato: in questo caso occorre aggiungere l'ulteriore costo della componente assicurativa. Stesso discorso vale per la manutenzione e per la garanzia dell'impianto, in quanto l'impresa dà una copertura di oltre 20 anni per alcune componenti, mentre per altre la garanzia non può essere superiore a 10 anni considerando che alcuni componenti - come l'inverter che consente di convertire l'energia continua in energia alternata come necessita al sistema elettrico. Allo stesso modo, la garanzia non è collegata al mutuo, in quanto qualora il guasto non rientri nelle clausole previste né dall'assicurazione né dalla garanzia, il debito della banca resta lì, e deve essere pagato in ogni caso.
Infine, stiamo parlando di impianti che costituiscono una tecnologia "vecchia", risalente agli sessanta, e che in quanto tale dovrebbe essere venduta ad un prezzo di mercato ragionevole, oltre ad aver coltivato esperienza e conoscenza tale da poter far fronte ad ogni inconveniente. Nella realtà gli impianti fotovoltaici vengono venduti a prezzi molto elevati, per circa 7 mila euro ogni Kw di potenza, senza tuttavia garantire che la potenza dell'impianto rimanga nel tempo immutata e non sia sottoposta a degrado, e molto spesso le società comprano dei materiali scadenti per rivenderli ad alte tariffe, con costi che vanno alle stelle se si considera che dovranno alimentare la multilvel, le Banche e le assicurazioni. È chiaro che, dietro al fotovoltaico - entrato nell'immaginario collettivo come una fonte di energia alternativa ed ecologica - hanno costruito un sistema intenzionalmente contorto e complesso per fare, ancora una volta, dell'energia un business, ai danni dei cittadini e dello Stato stesso.
Per quanto possa essere giusta e solida la motivazione di fondo della norma, il modo in cui viene applicata è sbagliato, è poco trasparente e potrebbe rivelarsi una vera e propria truffa, per far girare la macchina bancaria e delle multilevel. Poteva essere elaborato un qualsiasi altro sistema, come un diretto coinvolgimento dell'Enel, che avrebbe beneficiato degli incentivi, oppure avrebbe messo nel conto di ammortamento il risparmio delle bollette, senza richiedere così l'intervento di una banca. D'altronde se il sistema era davvero conveniente, funzionale ed efficiente, avrebbe avuto una pubblicità su larga scala, e avrebbe preso piede tra la popolazione in poco tempo. Invece sono anni che non si muove nulla, e in questi ultimi mesi l'unica cosa che sono riusciti a muovere sono stati - come sempre d'altronde - i mutui, i debiti, i finanziamenti. Allora ci chiediamo perché l'Enel non comincia già da domani a fornire ad ogni famiglia un impianto fotovoltaico, acquistando dai cittadini l'energia, investendo così della "produzione diffusa" e non in quella concentrata in obsolete centrali termoelettriche. Molto spesso abbiamo risposto a questa domanda dicendo che "vi sono grandi interessi delle lobbies petrolifere" che impedisce il diffondersi di tecnologie differenti. La triste realtà tuttavia fa capire che questo è un grande alibi, che il problema di base siamo noi stessi, i nostri governi, le nostre imprese, che complicano una cosa così semplice solo per speculare, per lucrare sulla speranza dei cittadini di uscire dall'incubo del petrolio e del gas. I mutui, le multilevel: non sono questi i mezzi che porteranno i popoli ad ottenere energia libera, perché sono strumenti di potere.
I clan pugliesi mettono le mani sul business della «green economy». Se fino a poco tempo fa c’erano dubbi, ora c’è più di un indizio che ha superato lo step del mero sospetto, arrivando a un passo dalla «prova». L’allarme arriva direttamente dal presidente della commissione parlamentare antimafia, Beppe Pisanu, al termine della «missione» di due giorni in Puglia del 10 dicembre 2010. Il senatore parla per oltre mezz’ora, in Prefettura, rispondendo a una serie di domande dei giornalisti.
Un argomento suscita subito l’attenzione ed è il riferimento agli affari nell’energia pulita. I clan acquistano e rivendono terreni dove collocare la pale eoliche o un parco fotovoltaico che gestiscono anche in proprio attraverso società prestanome: «Non chiedetemi altro, sono vincolato al segreto istruttorio», taglia corto Pisanu che conferma l’esistenza di indagini sulla piovra dell’energia da fonti rinnovabili. Il presidente non indica aree specifiche, ma è evidente che il fenomeno non può riguardare solo il Gargano, zona regina per l’eolico, e dove «la criminalità tende ad assumere forme più oculate di controllo del territorio e caratteristiche di vera e propria mafia». Del resto, la Puglia è la regione italiana con la più alta potenza di eolico, quindi va da sè che la criminalità fiuti l’affare e cerchi di approfittarne, chiosa il presidente dell’organismo bicamerale. Ma di eolico e fotovoltaico a iosa vi è anche nel Salento. Come a iosa sono le polemiche in fazioni contrapposte nello stesso marasma ambientalista salentino.
Pisanu ha parlato anche di borghesia mafiosa facendo riferimento a quel salto di qualità che vede la regione proiettata nell’olimpo di quei territori dove i colletti bianchi trovano terreno fertile. È il caso del riciclaggio di denaro sporco alimentato da connivenze e collusioni con una platea di professionisti che hanno ammodernato il modus operandi delle organizzazioni criminali, sempre più propense a far tacere le armi per poter operare sottotono.
PARLIAMO DI ENERGIA ALTERNATIVA.
Via dal vento, se ancora si può. Via da questo pazzo vento di incentivi scandalosi per quantità e durata, via da questa corsa forsennata all’ultima pala che qualcosa frutterà anche se per ora non gira, via da questi “sviluppatori” - nuova sofisticata figura di mezzani - che stravolgono e offendono la quieta esistenza dei piccoli comuni giocando a nascondino con le royalties, via da questi sprechi, da queste mafie in agguato, da queste bollette ogni giorno più care perché il Balletto dell’Eolico ha i suoi costi. E che costi, per produrre poco o nulla. Sono installati in questo momento in tutta la Penisola 4.236 “aerogeneratori”.
Le pale eoliche - il 98 per cento al Sud, e questo la dice lunga - producono 4.849 megawatt, tanto da porre l’Italia al terzo posto in Europa, ben distanziata da Germania (25.800) e Spagna (19.100) e inseguita da vicino da Francia (4.500) e Gran Bretagna (4.000). Bene, l’installazione e la manutenzione di una pala media in Danimarca - lo Stato che ha investito più sull’eolico - in 15 anni di vita costa un milione, mentre da noi, in Sicilia, viene il quadruplo. E sono pale che girano davvero poco: 1.880 ore sempre in Danimarca, 2.000 in Svizzera, 2.046 in Spagna. 2.066 in Olanda, 2.083 in Grecia, 2.233 in Portogallo e da noi soltanto 1.466 ore l’anno. Ma perché? «Una terra di vento e di sole -titolò il Financial Times la sua inchiesta sull’energia eolica in Italia - ma senza regole adeguate». Nessuno se ne accorse, o forse fecero tutti finta di non accorgersene.
Ma non s’è levato un moto di reazione neppure il 18 settembre 2010 quando il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, parlando da Cortina, ebbe a dire: «Il business dell’eolico è uno degli affari di corruzione più grande e la quota di maggioranza francamente non appartiene a noi». Silenzio. E invece lo sconcio è sotto gli occhi di tutti. Uno sconcio che provocherà guasti anche sociali, non solo economici, stravolgerà l’esistenza di borghi preziosi e di colture rare, produrrà un punto di non ritorno per questa nostra Italia con cui bisognerà fare i conti. Per comodità di ragionamento, lasciamo per un attimo da parte il primo dilemma, piace, non piace. Facciamo finta che questi giganti abbelliscano davvero l’Appennino Dauno e la piana di Mazara, le più belle zone archeologiche della Puglia e le gole più nascoste delle Marche. E passiamo ai dilemmi successivi: chi ci guadagna, come ci guadagna, se questi benefici arrivano in tutto o in parte al Paese Italia. Le prime cifre sono sconvolgenti, purtroppo. Ci sono domande di connessione alla rete in Italia (2010) pari a 88.171 megawatt. L’Anev, l’Agenzia che raggruppa le aziende del settore dell’Energia del vento stima che entro il 2020 la produzione potrà raggiunge al massimo 16mila megawatt. Che senso ha quindi, se non quello di puntare a una spaventosa speculazione, presentare domande per una quantità di energia cinque volte superiore? Il mercato dell’eolico è anche e soprattutto un mercato di carta, il mercato dei famigerati “certificati verdi”, che possono essere comprati dalle grandi aziende al piccolo produttore se queste grandi aziende non hanno prodotto, di loro, la percentuale di energia rinnovabile prevista dalla legge. Che poi queste aziende continuino con le vecchie produzioni inquinanti, questo sembra non interessare davvero a nessuno. Di fatto, con i certificati verdi si fanno grandi cose. Lo dice l’Authority per l’energia, rivelando che nel solo 2008 il Governo ha sborsato 1.230 milioni in certificati verdi, pagati grazie all’addizionale sulle nostre bollette, e che la metà di questa somma è stata tirata fuori per rimborsare un «eccesso dell’offerta». Ecco cosa vuol dire: che si produce più energia di quella che si vuole immettere o si riesce a immettere e che questo surplus viene comunque pagato. E ovviamente le nostre bollette restano le più care d’Europa. Ci sono studi recenti anche sui posti di lavoro, ventottomila nell’eolico nel solo 2008. Considerando che i sussidi erogati sono stati pari a 2,3 miliardi di euro, ogni posto di lavoro creato è costato 55mila. Un altro calcolo: comprendendo tutte le energie rinnovabili, quindi anche il fotovoltaico, si calcola che un nuovo posto di lavoro venga a costare almeno sette volte di più rispetto all’industria. C’e da rimanerci seppelliti sotto questa valanga di cifre. Se non ci fosse da rimettere insieme, ancora, alcune tessere del mosaico. A cominciare dagli incentivi sulla produzione di energia, garantiti per quindici lunghi anni come le pale e i più alti d’Europa come le bollette. Partiamo dal fatto che un kwatt di energia al povero cittadino costa oggi 6,5 centesimi. Ebbene, chi produce eolico ne intasca intorno al doppio (dipende dai valori un poco oscillanti della Borsa elettrica) e chi invece si butta sul fotovoltaico, che poi è la vera nuova inesplorata (può arrivare a cinque sei volte il valore iniziale, intorno ai 39-40 centesimi di euro).
Ma perché il Far West dell’eolico conosca uno stop, ci vogliono almeno i piani regionali. Per ora, chi si alza per primo mette la pala. Per sfuggire persino alla Valutazione di Impatto Ambientale, tedeschi, spagnoli e americani hanno già scoperto il trucco: spaccano un progetto di parco eolico in quattro-cinque spezzoni, scendono sotto la soglia prevista, e così se la cavano con una semplice, unilaterale Dichiarazione di impatto ambientale al comune che li ospita. Non c’è piano regolatore da rispettare, c’è solo da avvicinare il famoso “sviluppatore” in loco, che ha già scelto l’area, ha già valutato i vincoli paesaggistici e soprattutto ha già contattato gli amministratori locali. E comincia così il valzer del terreni scelti, quello sì, questo no, per distese infinite come solo il nostro Appennino regala. Ma la gente si ribella. Contro i parchi eolici spuntano comitati a ogni piazza, a ogni tavolino di bar, a Nardò, a Mazara, a Cosenza, a Crotone, a Otranto. E con i comitati spuntano le inchieste delle magistratura. A parte quella famosa aperta in Sardegna - quella di Flavio Carboni, per intenderci - è tutto un fiorire di nuovi fascicoli: ancora a Crotone, a Sant’Agata di Puglia, in Molise, a Trapani, dove allo “sviluppatore” Vito Nicastri, re del vento di Sicilia e Calabria e ritenuto longa manus del boss Matteo Messina Denaro, hanno sequestrato un patrimonio di 1.5 miliardi. E’ un mare di sporco che avanza, non se ne vede la fine. ''L'eolico nelle regioni meridionali è stato favorito e sostenuto dalla mafia. Questo è un dato inconfutabile; tacere è una forma di complicità''. Lo ha detto Vittorio Sgarbi.
Se ai pastorelli della collina di Giuggianello - come racconta Ovidio - capitò di essere trasformati in alberi solo per aver avuto l’ardire di danzare con le Ninfe, cosa potrà mai capitare agli amministratori della Regione Puglia se un giorno gli Dei decidessero di tornare qui: di trasformarsi tutti in pale eoliche da 80 metri l’una, alte quanto un palazzo di 25 piani? O quale altro sortilegio sarà loro riservato come punizione, per aver consentito non in un mese e neppure in un anno, ma in lunghi mesi e lunghi anni, che la loro splendida terra si trasformasse in un Far West, che il sogno del business ad ogni costo - una Corsa all’Oro in piena regola - attirasse qui ogni genìa di cow boy senza scrupoli a devastare, a inquinare, a corrompere? Ecco, la Puglia. Partiti con il sole e con il vento, con il sogno dell’energia pulita, si è finiti dieci anni dopo a fare i conti con un disastro: i conti con le inchieste penali aperte dalla magistratura, i conti con i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, i conti con le pressioni, con le intimidazioni che hanno dovuto subire i contadini proprietari dei terreni, con le giravolte di società partite con diecimila euro e poi pronte a sparire, i conti con una Puglia che non è più la stessa.
Tanto per riepilogare, il meccanismo è questo: arriva lo “sviluppatore”, contatta piccole amministrazioni con le casse vuote e contadini che ormai delle loro terre non vivono più, presenta il progetto delle pale, impacchetta tutto e aspetta la grande azienda. Per rivendersi a milioni di euro quell’autorizzazione e perché cominci un altro affare, questo alla luce del sole, ma altrettanto discutibile: un kw di energia che vale 6,5 centesimi di euro verrà pagato a chi la produrrà con queste pale praticamente il doppio, e per quindici lunghissimi anni. Chi ci rimette, sempre per riepilogare, è il povero cittadino che paga la bolletta: c’è una voce che gli viene addebitata proprio perché partecipi anche lui (ma solo da spettatore pagante) a quest’abbuffata, una voce che in questo 2010 vuol dire, come incentivo su scala nazionale a carico degli utenti, 3 miliardi di euro, 5 miliardi nel 2015 e 7 miliardi nel 2020. Bell’affare.
Ma torniamo alla Puglia, dove davvero è successo di tutto e di più. Dove l’Anev, l’Agenzia delle imprese del settore, dice che fino al 2009 sono state installate 916 pale eoliche per un totale di 1.158 megawatt, Puglia prima in Italia, s’intende. Ma le cifre dell’Anev sono superate da quelle dell’assessorato all’Energia: fra impianti installati e autorizzati c’è già in campo una produzione di 2.300 megawatt, quindi intorno alle 1.800 pale e c’è un piano energetico regionale che consente di arrivare entro il 2016 a 4.000 megawatt. Una follia, la Puglia da sola che pretende (e a questo punto dovrebbe riuscirci) di produrre un quarto dell’energia eolica italiana prevista dall’Anev per il 2016. Come è potuto accadere?
«Ma se vuole – confida l’assessore all’energia - le offro un dato che può consegnare la Puglia alla fantascienza...». E lo offre: ci sono domande giacenti in Puglia per altri 30mila megawatt, per almeno altre 12mila torri eoliche da disseminare sul territorio, «una specie di Foresta del Mato Grosso», chiosa l’assessore. E che succederà? «Succederà che approveremo solo progetti altamente qualificati, quindi pochissimi». Richieste per 30mila megawatt vuol dire che i pescecani dell’eolico pensavano di produrre qui il doppio dell’energia prevista per tutta l’Italia dalle “rinnovabili” entro il 2020. Una stalla che nessuno si è preoccupato di chiudere né quando, nell’estate del 2008 arrestarono il sindaco di Ascoli Satriano, provincia di Foggia, Antonio Rolla, per abusi commessi proprio nella realizzazione di un parco eolico, né quando a febbraio 2009 si mosse la Procura Antimafia di Lecce con un’inchiesta su quel che resta della Sacra Corona, sul clan Bruno, e sul parco eolico di Torre Santa Susanna, provincia di Brindisi, che finì con dieci arresti, e neppure quando un anno dopo tutta la giunta di Sant’Agata di Puglia finì sotto inchiesta per le pale del Sub Appennino Dauno che sul terreno del sindaco valevano il doppio. Tanto meno ha senso chiuderla oggi, questa stalla, oggi che la Procura di Napoli ha messo gli occhi anche sul parco eolico di Castellaneta, provincia di Taranto, uno dei più grandi d’Europa con le sue 276 pale, e che sta frugando tra le carte della Green Engeneering and Consulting, di Napoli appunto, la stessa azienda che si potrebbe ritrovare negli archivi del comune di Vicari, provincia di Palermo, l’intero consiglio sciolto nel 2005 per «infiltrazioni mafiose». Ma non è la sola connection siciliana che si nota qui in Puglia: nelle pagine dell’inchiesta di Raccuja, parco dei Nebrodi, provincia di Messina, che ha portato all’arresto del sindaco, si può ritrovare il nome della Api Holding, la stessa ditta delle pale di Sant’Agata di Puglia. Insomma, un bell’intreccio.
Si diceva dei pastorelli e delle Ninfe perché anche qui c’è un casus belli, un po’ come le rovine di Altilia a Sepino, in Molise. La differenza è che mentre le pale di Sepino sono previste a una decina di chilometri dalle rovine e già danno fastidio, le 14 pale di Giuggianello, invece, dovrebbero sorgere praticamente tra i resti megalitici che raccontano quella leggenda. Quattordici belle pale che qui hanno una loro peculiarità: essendo piazzate sulle Serre Salentine, cioè sui crinali più alti del Tacco d’Italia, a 200 metri di quota, possono essere ben viste dai due mari, sia dall’Adriatico sia dallo Jonio. Come ha potuto la regione Puglia consentire che si arrivasse a tanto? Perché, poi, il Salento è un caso nel caso. E’ qui che c’è stato l’assalto più sfrenato. Pale come se piovesse, a Lecce stessa, a Soleto, a Martignano, a Surbo, a San Pancrazio, a Martano, a Ugento, a San Donato. Solo a Nardò, nelle bellissima Nardò, non sono arrivati. Una specie di rivolta di popolo ha impedito che il parco eolico si realizzasse. Ma per il resto è stata una specie di marcia trionfale dei Guastatori. E poi c’è l’off shore, le pale a mare. Quattordici progetti presentati, uno approvato dalla Regione Puglia, quello di Tricase, in provincia di Lecce, con le torri a una ventina di chilometri dalla costa. Una specie di zattere che comunque infastidiscono parecchio gli ambientalisti: sostengono che interromperebbero la migrazione degli uccelli fra Italia e Albania. Gli altri tredici progetti, perché nel frattempo la normativa è cambiata, sono tutti sul tavolo del ministero a Roma. La Regione, per quanto di sua competenza, si è già dichiarata contraria alle torri alle Isole Tremiti e davanti al Gargano. E la partita non è chiusa. Con i pannelli fotovoltaici stanno succedendo cose turche per queste contrade. E il fotovoltaico rende come incentivi almeno tre volte l’eolico, scatena, quindi, appetiti ancora più sfrenati. E’ la nuova frontiera, perché questo brutto Far West non finisce mai. Tutta ancora da raccontare.
«Italia Nostra auspica una nuova prima vera “mani pulite in Puglia”, che riporti la legalità ed il diritto, dove oggi sembra regnare solo l’interesse di pochi! Dove si devasta il paesaggio, lì c’è la mafia! Non cercatela altrove! - Queste le parole di Marcello Seclì, presidente Italia Nostra, Sud Salento. - I telefoni di Italia Nostra squillano come centralini ospedalieri durante un’epidemia: è gente allarmata che denuncia la desertificazione, la morte del Salento sotto i “lager dei pannelli fotovoltaici” dove prima crescevano fiori e prodotti agricoli. E’ una “metastasi incontrollata” che soffoca le nostre vite uccidendo il nostro paesaggio, un “cancro”, non lo si può definire diversamente, cui la Regione deve porre rapido rimedio, fermando con una moratoria il fotovoltaico in tutte le zone agricole e autorizzandolo solo nelle aree industriali e sui tetti e tettoie di strutture ed edifici recenti! Tutti gli impianti industriali prossimi alle strade del Salento che stiamo vedendo sorgere ormai dappertutto comportano, sotto la luce del sole, un effetto riverbero che acceca gli automobilisti provocando incidenti che possono rivelarsi anche fatali! Nessuno ha mai tenuto conto di questo?! Eppure altri impianti fotovoltaici a terra stanno sorgendo su ettari ed ettari ai margini della provinciale Castrignano dei Greci-Martano, della Corigliano-Galatina, lungo lo scorrimento veloce Maglie-Galatina, qui addirittura senza che siano rispettate nemmeno le fasce di rispetto di almeno 50 m previste per le strade di tipo B, ecc. ecc. Scempi a danno del paesaggio, del suolo agricolo e del nostro ambiente (si consideri solo l’inquinamento da diserbanti utilizzati!), tutti incostituzionali, che amministratori dall’animo corrotto e bugiardi presentano pure come occasione di sviluppo per il territorio, pur nella consapevolezza della nulla tecnologia locale impiegata e della esigua manodopera che sarà occupata a regime; amministratori che si arrampicano sugli specchi per cercare di giustificare le autorizzazioni concesse ai nuovi colonizzatori stranieri dell’energia, che tutto prenderanno, deprederanno, dal territorio, persino i nostri stessi incentivi per le rinnovabili, senza nulla poter dare in cambio. Siamo arrivati veramente alla spudoratezza! Ciò che finora si è fatto e tentato di fare illegittimamente e nel più assoluto riserbo, ora si tenta di continuare a fare cercando di legittimarlo attraverso la pubblica ostentazione, in extremis, nel crollo rovinoso di immagine e delle norme del castello immorale con cui si era permessa questa speculazione, quella delle rinnovabili industriali e della Green Economy, praticamente la più grave speculazione della storia del Sud Italia, come l’ha definita tra le righe lo stesso Ministro Tremonti! Dove sono le forze dell’ordine che dovrebbero intervenire in forze per porre i sigilli di sequestro a queste strutture totalmente industriali realizzate in piene zone agricole e contro la Costituzione Italiana ed ogni buon principio di pianificazione urbana? Infatti, la legge regionale 31/08 è stata dichiarata incostituzionale, già in marzo 2010, dalla Corte Costituzionale, ed è in nome di questa legge che si sono aperti successivamente cantieri per realizzare gli impianti, i più, di potenze inferiori a 1MW, ciascuno di circa tre ettari di verde fertile suolo ricco di biodiversità, che viene desertificato e coperto, sepolto di pannelli, pugnalato da migliaia di pali e martoriato con chilometri di cavidotti, ed il tutto con la presentazione di una semplice Dichiarazione di Inizio Attività (DIA) al solo comune interessato; una procedura che non offre alcuna garanzia per l’ambiente e la pubblica sicurezza e prevenzione sanitaria. Scopriamo poi, che stesse ditte, magari mal celate sotto nomi diversi, tentano di realizzare più impianti nello stesso feudo comunale! Ma questo è assolutamente illegale, non solo per l’incostituzionalità già citata; si tratta, infatti, di frazionamenti realizzati ad hoc, con dislocazione di uno stesso mega impianto di più megawatt in più sotto impianti, anche non necessariamente contermini, ma nello stesso feudo, o in feudi vicini, per poter con lo strumento delle semplici DIA, evitare, con un illecito escamotage, le più complesse strade burocratiche dell’autorizzazione unica regionale, che per legge devono percorrere impianti superiori ad 1MW! A volte il frazionamento mira ad evitare le incerte, nell’esito autorizzativo, procedure di Valutazione di Impatto Ambientale per i grandi impianti! Intervengano allora le forze dell’ordine per riportare l’ordine e la legalità, per controllare come sia possibile tutto ciò, ma anche per verificare come sia stato possibile inaugurare altri nuovi cantieri alla luce della retroattività della sentenza di incostituzionalità! Ci chiediamo, senza volere fare polemica, ma come appello estremo e disperato: dove sono le forze dell’ordine, il NOE, i Carabinieri, la Polizia, la Finanza, la Forestale, la Polizia Provinciale? Non vedono, come tutti noi cittadini invece vediamo quotidianamente, quanto si sta compiendo illegalmente ai danni di noi tutti, del nostro paesaggio, della nostra Costituzione? E’ un esercito stipendiato a difesa del territorio che pare sonnecchiare, o a cui le mani sono state legate da interessi di terzi poteri, che hanno soffocato anche la loro libertà?! C’è sempre tempo per sequestrare piscine e case abusive, ma oggi vi è l’impellenza di fermare sul nascere lo scempio ben più grave e catastrofico delle rinnovabili industriali, da mega eolico e mega fotovoltaico, denunciato dagli stessi direttori generali pugliesi di ARPA (Agenzia per la Prevenzione l’Ambiente) e della Soprintendenza ai Beni Culturali e Paesaggistici! Non avallino i magistrati e le nostre forze dell’ordine, con il silenzio e la non azione, quanto sta avvenendo!»
Quei miliardi al vento. A Report la grande truffa dell'importazione dell'energia verde. Le garanzie fornite dai venditori esteri non danno sicurezza sulla provenienza. È un meccanismo complicato, ma si può riassumere così: comprare un certificato verde costa a un’azienda italiana molto di più che importare dall’estero energia dichiarata pulita, anche se non c’è alcuna vera garanzia che sia davvero tale, come ammette il sottosegretario Stefano Saglia. Conseguenza per il contribuente italiano: lo Stato si è impegnato a comprare tutti i certificati verdi invenduti, per garantire un sostegno al nascente business dell’energia pulita. E questo (come spiega Milena Gabanelli nella puntata di Report in onda in 28 novembre 2010 su Raitre) nel 2009 è costato alle casse pubbliche un miliardo di euro. Che pagano tutti gli italiani in bolletta.
C’è fame di energie rinnovabili in Italia. Nella puntata di Report Giovanni Buttitta, direttore delle relazioni esterne di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, conta e riconta le richieste per allacciare i nuovi impianti: “Un numero molto alto: 120 mila megawatt”. Il doppio del fabbisogno annuale dell’Italia. Perché spuntano panelli fotovoltaici ovunque e pale eoliche giganti sostituiscono alberi in montagna e coprono la terra rossa in riva al mare? L’inchiesta di Alberto Nerazzini racconta il vero business che si nasconde dietro le richieste ambientaliste dell’Europa: entro il 2020 l’Italia deve abbattere le emissioni di anidride carbonica e consumare il 17 per cento dell’energia da fonti rinnovabili. I cittadini, in gran parte a loro insaputa, contribuiscono a una rivoluzione verde pagando in bolletta 3,2 miliardi di euro l’anno. Nerazzini si occupa anche di Green Power, società di Enel appena sbarcata in Borsa. L’azienda non si affida solo al boom dell’economia verde, ma anche al regime fiscale degli Stati Uniti: oltre 60 società di proprietà di Green Power hanno sede a Wilmington, nel Delaware, Stati Uniti. Come mai? L’amministratore delegato, Francesco Starace, spiega a Report senza imbarazzo: “Perché lì, in America, noi abbiamo una società che si chiama Enel North America, residente nel Delaware, che all’interno degli Usa ha un regime fiscale positivo. È un modo per generare meno tasse”. Commenta Nerazzini: “Tutto legittimo. E sappiamo quanto sia difficile restare competitivi sul mercato internazionale. Ma visto che Enel è ancora una società controllata dal Ministero del Tesoro, che ne possiede più del 30 per cento, uno si domanda quale sia la percentuale di tasse che Enel sta evitando di scaricare sul fisco italiano”.
L’altro punto su cui si concentra Report è il traffico di energia rinnovabile importata dall’estero dai produttori di energia sporca (gas, petrolio) che sono tenuti a ripulirsi, comprando “certificati verdi” da chi produce usando fonti rinnovabili (un complicato sistema per trasferire soldi da chi inquina a chi è più “verde”). Il 31,6 per cento di tutta l’energia elettrica consumata in Italia proviene da fonti rinnovabili, cioè da centrali idroelettriche, biomasse, geotermia, eolico e solare. Questo dato è lo stesso che è comunicato ai consumatori: compare nella tabella del mix energetico che da maggio scorso le aziende fornitrici di elettricità, come l’Enel, devono pubblicare sui loro siti e sulle bollette. Un dato che sembra descrivere un’Italia sulla buona strada nel raggiungimento dell’obiettivo concordato con l’Europa per il 2020. Peccato però che la quantità di energia (32mila gigawatt) importata che il Gse (Gestore Servizi Energetici) considera verde possa essere computato dall’Italia come energia da fonte rinnovabile per il raggiungimento degli obiettivi europei del 2020. “Le garanzie d’origine non sono sufficienti per il conteggio del target italiano”, ammette Gerardo Montanino, direttore operativo di Gse.
La direttiva europea che stabilisce gli obiettivi del 2020 prevede infatti che uno Paese possa conteggiare l’energia verde importata solo se c’è uno specifico accordo con il Paese esportatore. Questi accordi per il momento non ci sono e quindi l’energia verde di cui parla il Gse, ai fini degli obiettivi del 2020, conta zero. E questo per i prossimi anni, visto che secondo il Piano di azione nazionale per le energie rinnovabili, stilato dal ministero dello Sviluppo economico, i primi giga verdi d’importazione saranno computabili come consumati in Italia solo nel 2016: dei 9mila Gwh previsti, 6mila arriveranno dal Montenegro. Sempre che venga realizzato un cavo di interconnessione attraverso l’Adriatico. Insomma per gli obiettivi del 2020 le garanzie d’origine non contano nulla. E ora sembra avere dubbi sulla loro reale utilità anche il sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico Stefano Saglia, che a Report dice: “Importiamo energia ed è quasi tutta con certificato di garanzia da fonte rinnovabile, ma invece non lo è”. Perché, quindi ci si affida tanto all’estero? Come sempre è questione di soldi.
Un'inchiesta di Report rivela come il cippato per le centrali a biomasse spesso proviene dall'estero, con notevoli costi ambientali. Le centrali a biomasse sono utili all'ambiente e all'economia se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie, in un'ottica di filiera corta, per rendere autosufficienti i piccoli paesi. La stessa cosa non si può dire per le centrali di grandi dimensioni, che per essere alimentate devono acquistare biomasse fuori provincia, fuori regione e perfino all'estero. A tracciare un quadro di luci e ombre sulle centrali a biomasse è stata un'inchiesta della trasmissione Report di Milena Gabanelli, che ha riconosciuto la bontà per il territorio e l'ambiente di un modello basato sulla filiera corta e, per quanto riguarda le centrali alimentate a legno cippato, basate sull'utilizzo degli scarti delle segherie locali e del legname recuperato dalla pulizia dei boschi. Il problema evidenziato è la grande diffusione su tutto il territorio nazionale delle centrali a biomassa, dovuta anche agli incentivi statali (certificati verdi, che però a partire dal 2011 non dovranno più pesare sulla finanza pubblica), con il rischio che in una stessa zona (come in Garfagnana) ce ne siano troppe. La conseguenza è che in molti acquistano il legname fuori regione e all'estero, non solo in Europa ma anche da Cile, Nigeria, Indonesia, Brasile, Argentina, alla faccia della filiera corta. Trasportare su distanze così grandi il legname comporta alti costi energetici e ambientali, per non parlare poi dell'aumento dei gas serra causato dal disboscamento del suolo. Ma i costi diventano anche economici: la carenza di legno causa l'aumento dei costi dei pannelli per l'arredamento, calano i consumi e l'industria dei produttori del legno semilavorato rischia di entrare in crisi, insieme a tutta la filiera dell'arredamento. “Le centrali a biomasse sono un'ottima idea – ha riassunto la Gabanelli chiudendo la trasmissione - se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie e utilizzano tutta l’energia prodotta per riscaldare magari piccoli paesi. Il fine dovrebbe essere quello di diventare autosufficienti e non di lucrare. Diversamente si rischia di compromettere un patrimonio, di mettere in crisi un settore dell’economia, a noi costa di più, e alla fine magari si inquina, quanto con il gasolio”.
PARLIAMO DI INQUINAMENTO DI STATO.
Il governo italiano con una legge ad hoc ha dato il via libera al superamento delle soglie di inquinamento dell'aria. Fino al 31 dicembre 2012, nelle città italiane con più di 150mila abitanti, il benzoapirene, sostanza altamente cancerogena, potrà superare la soglia europea fissata ad un nanogrammo per metro cubo. Tale livello è stato abrogato con il Decreto Legislativo n. 155 del 13 agosto 2010, approvato, secondo il governo, in attuazione della Direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio. Vediamo nel dettaglio cosa dicono le carte legislative.
Nella realtà dei fatti, la direttiva europea non parla affatto di Benzoapirene, potente cancerogeno che viene veicolato nei polmoni dalle polveri sottili e che si origina dalle combustioni delle industrie e delle auto, ma di altre sostanze. A dircelo è l'articolo 5 comma 1 della stessa direttiva: "Le soglie di valutazione [...] si applicano al biossido di zolfo, al biossido di azoto e agli ossidi di azoto, al particolato (PM10 e PM2,5), al piombo, al benzene e al monossido di carbonio". Nessuna traccia, dunque, del Benzoapirene. Solo un pretesto per modificare le normative già in vigore.
Infatti, tornando indietro nel tempo, risaliamo alla Direttiva 2004/107/CE, nella quale all'articolo 3 comma 1 si legge: "Gli Stati membri prendono tutte le misure necessarie, che non comportano costi sproporzionati, per assicurare che, a partire dal 31 dicembre 2012, le concentrazioni nell'aria ambiente di arsenico, cadmio, nickel e benzo(a)pirene, quest'ultimo usato come marker per il rischio cancerogeno degli idrocarburi policiclici aromatici, valutate ai sensi dell'articolo 4, non superino i valori obiettivo di cui all'allegato I". Secondo quanto contenuto nell'allegato I, tale valore è per il Benzoapirene di un nanogrammo per metro cubo.
Il termine del 31 dicembre 2012 era stato anticipato dal Governo Prodi con il Decreto Legislativo 3 agosto 2007, n. 152 recante: "Attuazione della direttiva 2004/107/CE concernente l'arsenico, il cadmio, il mercurio, il nichel e gli idrocarburi policiclici aromatici nell'aria ambiente ". Con tale decreto veniva recepita la Direttiva europea e veniva fissato il limite di concentrazione del Benzoapirene a un nanogrammo per metro cubo. Qualcosa però deve aver convinto il Governo Berlusconi a tornare suoi propri passi visto che con l'ultimo decreto in ordine cronologico, vale a dire il Decreto Legislativo n. 155 del 13 agosto 2010, vengono concessi ancora due anni di tempo per adeguarsi alla soglia limite per il benzoapirene. A dircelo è l'articolo 9 comma 2: "Se, in una o più aree all’interno di zone o di agglomerati, i livelli degli inquinanti di cui all’articolo 1, comma 2 (fra Cui Il Benzoapirene) superano, sulla base della valutazione di cui all’articolo 5, i valori obiettivo di cui all’allegato XIII (un nanogranno per metro cubo), le regioni e le province autonome, adottano, anche sulla base degli indirizzi espressi dal Coordinamento di cui all’articolo 20, le misure che non comportano costi sproporzionati necessarie ad agire sulle principali sorgenti di emissione aventi influenza su tali aree di superamento ed a perseguire il raggiungimento dei valori obiettivo entro il 31 dicembre 2012". Alla luce dei fatti, le industrie potranno inquinare il paese, superando la soglia suddetta, fino al 31 dicembre 2012.
Troppo arsenico nell'acqua potabile di 128 Comuni italiani, soprattutto del Lazio. A nulla è valsa la richiesta del Governo di derogare ai limiti di legge: la Commissione europea ha negato il permesso e impone ordinanze per vietarne l’uso alimentare. La Commissione europea ha respinto la richiesta di deroga ai limiti di legge inoltrata dall'Italia per la concentrazione di arsenico presente nell’acqua destinata ad uso potabile. In particolare per quanto riguarda l'arsenico, scrive la Commissione Ue, “occorre autorizzare unicamente deroghe per valori di arsenico fino a 20 microgrammi al litro”. Al contrario, finora si poteva derogare fino 50 microgrammi al litro. Una decisione che riguarda 128 Comuni. Se l’Italia non rispetterà il divieto, rischia un procedimento davanti alla Corte di Giustizia europea. L'Italia è il paese europeo dove più frequentemente si è permesso ad alcuni acquedotti di erogare acqua con valori fino a 5 volte superiori alla legge, in particolare per arsenico, boro e fluoro. Una pessima abitudine, che ha più volte suscitato polemiche e creato allarmismi sui potenziali rischi sulla salute. Preoccupazioni non certo affievolite - come è giusto che sia - dal fatto che le deroghe riguardino pochi comuni e località che si trovano nelle regioni Lazio, Campania, Toscana, Umbria, Lombardia e nelle province di Trento e Bolzano (per inciso in tutti i casi si tratta di sostanze presenti naturalmente nelle falde cui gli acquedotti attingono). Lo stop ufficiale è arrivato il 28 ottobre 2010, ma già nei mesi scorsi a pronunciarsi era stato il comitato scientifico della Commissione europea, lo SCHER (Scientific Committee on Health and Environmental Risks), che ha in parte confermato le preoccupazioni che riguardano la salute dei più piccoli, mentre per quanto concerne la popolazione adulta il rischio sulla salute derivante dalla proroga dei valori derogabili per questi tre elementi sarebbe molto basso. Nello specifico, per i bambini sotto i 3 anni il boro assunto bevendo acqua potrebbe facilmente raggiungere il limite massimo tollerabile, mentre per i bambini e i ragazzi fino a 18 anni non è escluso che gli effetti negativi dovuti all'arsenico si manifestino già a partire dai 20 microgrammi per litro.
PARLIAMO DI TUTELA DEI DIRITTI
Il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, Dr Antonio Giangrande, segnalando il fatto che nel mondo da anni vi sono sentenze di risarcimento danni da inquinamento, sia esso atmosferico, delle acque, ambientale o acustico. Addirittura sono stati riconosciuti indennizzi stratosferici a favore di fumatori consenzienti, come vi sono divieti di fumare all’aperto per difendersi dal fumo passivo.
Non capisce come si possa continuare a rimanere succubi di una politica ed amministrazione pubblica inconcludente e subire da anni un incremento di sofferenza e disagio riconducibile all’inquinamento.
Purtroppo, l’incremento delle malattie riconducibili a questa tematica, riguarda tutti, anche perché gli effetti, con il vento o con le correnti, raggiungono distanze inimmaginabili.
Naturalmente ogni iniziativa deve tendere a salvaguardare gli interessi delle aziende, dei lavoratori, dei cittadini.
INSOMMA: LE AZIENDE NON CHIUDONO, MA PAGANO.
L’azione giudiziaria civile di risarcimento danni all’ambiente (in forma specifica o per equivalente), ovvero alla persona (biologici, morali e per “il patema d’animo”), e l’obbligo per le amministrazioni locali ad emettere ordinanze attinenti oneri per le grandi aziende a titolo di indennità di ristoro civico e di servitù industriale, dovuto al loro esercizio, quantunque l’inquinamento sia o fosse al di sotto del limite legale, porterà un senso di legalità in un territorio martoriato. Resta fermo l’obbligo per le aziende di adeguarsi ai limiti di emissioni inquinanti, pena il risarcimento del maggior danno.
Il DANNO AMBIENTALE
Il concetto di danno ambientale ha trovato un suo chiaro riconoscimento nel nostro ordinamento giuridico con la L.349/86 ("Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale"). In particolare, l’art. 18 della suddetta legge dispone che:
"Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato" (comma 1).
"Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo di beni ambientali" (comma 6).
"Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile" (comma 8).
La portata delle disposizioni di cui alla L.349/86 non può essere compresa appieno se non attraverso un puntuale riferimento alle decisioni giurisprudenziali e alla dottrina, che, non di rado, hanno interpretato tali disposizioni in maniera difforme dalla lettera della legge.
Danni ambientali reversibili
Danni patrimoniali.
Danno emergente: in conformità alla giurisprudenza e alla dottrina maggioritaria, può essere calcolato come costo per la messa in sicurezza, bonifica ed ripristino dei siti danneggiati (ex D.M. 471/99);
Lucro cessante: non vi è altro modo di calcolarlo se non quello di valutare i danni che deriveranno ai richiedenti dalla mancata realizzazione di profitti in conseguenza dell’evento dannoso. Bisognerà tener conto anche dei danni ulteriori connessi ai tempi di realizzazione degli interventi di ripristino dei siti danneggiati, nonché dei c.d. danni indiretti (danni derivanti dall’alterazione degli ecosistemi).
Danni non patrimoniali.
Danno estetico: può essere calcolato come percentuale del danno patrimoniale complessivo (danno emergente e lucro cessante) e va in ogni caso rapportato ai tempi necessari per il ripristino dei luoghi danneggiati.
A tal fin si può utilizzare un coefficiente (B) che chiameremo "coefficiente di bellezza e significatività del sito danneggiato", il cui valore sarà compreso tra 0 e 1.
Danno all’immagine: nelle ipotesi di valutazione del danno ambientale, abbiamo preferito non creare una voce di danno autonoma per questo tipo di lesione.
Anzitutto perché non crediamo opportuno "appesantire" la quantificazione del danno ambientale e la conseguente richiesta risarcitoria con voci di danno che non hanno ancora trovato unanime riconoscimento in dottrina e in giurisprudenza (ne risentirebbe la credibilità dell’intero sistema di valutazione del danno ambientale).
E poi perché il danno all’immagine è comunque riconducibile a quello da lucro cessante, per le sue componenti patrimoniali, e al danno estetico per quasi tutto il resto. E’ indubbio che il danno all’immagine sia altra cosa rispetto al danno estetico, ma il risarcimento del secondo farebbe senz’altro giustizia anche del primo, soprattutto se nella determinazione del valore del citato coefficiente B si tiene conto delle possibili ripercussioni della lesione ambientale sull’immagine dell’ente richiedente.
Danni ambientali irreversibili
Danni patrimoniali.
Danno emergente: trattandosi di danno ambientale irreversibile e non potendo ipotizzarsi un ripristino dello status quo ante, può essere calcolato come costo per la creazione di un habitat simile a quello preesistente o come costo per la creazione dell’habitat danneggiato in altro sito.
Lucro cessante: v. danni reversibili. Ovviamente, qui i danni ulteriori andranno proporzionati ai tempi di realizzazione degli interventi precedenti.
Danni non patrimoniali.
Danno estetico; vedi danno reversibili;
Danno all’immagine: vedi danni reversibili.
IL DANNO PERSONALE: LEGITTIMAZIONE ALL’AZIONE DEL SINGOLO
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III PENALE
Sentenza 2 maggio 2007, n. 16575
Il danno ambientale presenta una triplice dimensione:
- personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo);
- sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana, ex art. 2 Cost.);
- pubblica (quale lesione dei diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali).
In questo contesto persone, gruppi, associazioni ed anche gli enti territoriali non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in forza di una autonoma legittimazione.
Integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. "perdite provvisorie", perché qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo dì danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.
La Cassazione, con un sentenza che vi consiglio vivamente di leggere d’un fiato (potere liberamente scaricare la sentenza della Corte di Cassazione Civile n. 11059/09 ha statuito, invece, e per fortuna giuridico-ambientale, che è giuridicamente corretto inferire l’esistenza di un danno non patrimoniale, ravvisato nel patema d’animo indotto dalla preoccupazione per il proprio stato di salute e per quello dei propri cari, ove tale turbamento psichico sia provato in via documentale.
Il danno non patrimoniale può essere provato anche per presunzioni e la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza dell’altro, secondo criteri di regolarità causale.
Si tratta, del resto di principi affermati già in passato (Cass. Sez. Un. civ. n. 2515/2002, in caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo - art. 449 c.p.) nel caso del verificarsi di un delitto di pericolo presunto a carattere plurioffensivo: qui la Cassazione sottolineava che alla lesione dell’interesse adespota all’ambiente ed alla pubblica incolumità, si affianca il pregiudizio causato alla sfera individuale dei singoli soggetti che si trovano in concreta relazione con i luoghi interessati dall’evento dannoso, in ragione della loro residenza o frequentazione abituale. Ove sia dimostrato che tale relazione è stata causa di uno stato di preoccupazione è configurato il danno non patrimoniale in capo a detti soggetti, danno risarcibile in quanto derivato da reato.
In armonia con un’altra decisione della Cassazione (Cass. Sez. Un. civ. n. 26972/2008) il giudice di legittimità delle leggi ha, inoltre, stabilito che va esclusa l’autonomia del c.d. danno esistenziale, il quale non rappresenta altro che una delle voci del danno non patrimoniale.
Nel caso in cui il fatto illecito, da cui è derivato il danno, si configuri come reato, il danno non patrimoniale è risarcibile nella sua più ampia accezione di danno determinato da lesioni di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica.
INDENNIZZO PER SERVITU’ INDUSTRIALE
In diritto si definisce servitù (o servitù prediale) un diritto reale minore di godimento su cosa altrui, consistente in "un peso imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario" (art. 1027 del codice civile).
L'utilità del fondo dominante, presente o futura, è estremo essenziale della servitù: può consistere nella maggiore comodità del fondo, può anche essere inerente alla sua destinazione industriale. Per questo si parla di Servitù Industriale. Tuttavia, deve sempre essere utilità di un fondo, non quello personale del proprietario. In quest’ultima ipotesi si ha un un diritto personale di godimento, la cosiddetta servitù aziendale.
INDENNITA’ DI RISTORO CIVICO
Tributo locale a carattere amministrativo per speciali prestazioni (servitù atipica).
PARLIAMO DI DISASTRI IDROGEOLOGICI.
La natura non fa sconti. Prima o poi, gli errori ricadono addosso a chi li ha compiuti. Seminando la morte, come a Messina.
Ciò che riceve, restituisce. Nel bene come nel male. Una terra tutelata restituisce una sicura protezione idrogeologica.
Una terra violentata non può far altro che produrre altra violenza. Non perché sia matrigna, ma perché l’uomo le ha sottratto gli strumenti per proteggere proprio se stesso.
Non c’è bisogno di evocare lo spettro di Sarno, con le sue 140 frane e i suoi 137 morti nel maggio 1998. Basta guardare il 2009. Frane e quattro morti al Nord, due a Borca di Cadore (18 luglio). Due vittime nel Trapanese per un nubifragio (2 febbraio). Due operai morti sotto una frana a Caltanissetta (28 gennaio). Frane in tutto il Sud, chiusi 60 chilometri di autostrada (29 gennaio). Due morti e quattro feriti per una frana sulla Salerno-Reggio Calabria (25 gennaio). Poco prima, alla fine del 2008, gli spettacolari danni e l’autentico terrore di Roma per la clamorosa piena del Tevere (dicembre 2008). Inferno d’acqua a Cagliari, tre morti (22 ottobre). Maltempo: due morti, Valtellina isolata (13 luglio). Po e Dora, rotti gli argini, ponti bloccati e scuole chiuse. E si potrebbe continuare tristemente così, con titoli sempre uguali, lì a dimostrare che la natura non fa sconti.
La ricetta del disastro è precisa. Si prende un territorio come l'Italia, con 7 Comuni su 10 a rischio idrogeologico. Si spargono case abusive a profusione, possibilmente nelle aree in cui si espandono fiumi e torrenti in piena. S'immettono in atmosfera gas serra, quanto basta per modificare il ciclo idrico e produrre piogge interminabili e violente. Poi si aspetta. Non a lungo.
Case dichiarate inagibili e nessun controllo. Scarsa manutenzione e fondi investiti male. Così, la tragedia di Messina del 1 ottobre 2009 passa sotto inchiesta e diventa disastro colposo con decine di morti.
Il rischio frane e alluvioni interessa praticamente tutto il territorio nazionale. Come ben documentato in "Ecosistema a rischio", edizione novembre 2008, secondo l'indagine a cura di Legambiente e la Protezione civile sono ben 5.581 i comuni a rischio idrogeologico, il 70% del totale dei comuni italiani, di cui 1.700 a rischio frana, 1.285 a rischio di alluvione e 2.596 a rischio sia di frana che di alluvione.
Il nostro territorio è reso ancora più fragile dall’abusivismo, dal disboscamento dei versanti e dall’urbanizzazione irrazionale. Sono la Calabria, l’Umbria e la Valle d’Aosta le regioni con la più alta percentuale di comuni classificati a rischio (il 100% del totale), subito seguite dalle Marche (99%) e dalla Toscana (98%). Sebbene in molte regioni la percentuale di comuni interessati dal fenomeno possa apparire ridotta, la dimensione del rischio è comunque preoccupante. In Sardegna e in Puglia, ad esempio, nonostante la percentuale dei comuni a rischio sia tra le più basse d’Italia, le frane e le alluvioni degli ultimi anni hanno provocato vittime e notevoli danni.
Oltre a tanti piccoli comuni, anche molte delle grandi metropoli e città italiane sono considerate a rischio idrogeologico come risulta dallo studio del Ministero dell’Ambiente e dell’UPI.
Questi dati mettono in luce chiaramente la fragilità di un territorio in cui semplici temporali, provocano continui allagamenti e disagi per la popolazione. Una situazione che deriva soprattutto dalla pesante urbanizzazione che ha subito l’Italia, in particolare lungo i corsi d’acqua.
Complessivamente sono ancora troppe le amministrazioni comunali italiane che tardano a svolgere un’efficace ed adeguata politica di prevenzione, informazione e pianificazione d’emergenza. Appena il 37% dei comuni intervistati svolge un lavoro positivo di mitigazione del rischio idrogeologico. Un comune su quattro non fa praticamente nulla per prevenire i danni derivanti da alluvioni e frane. Sono ben 787 le amministrazioni comunali che risultano svolgere un lavoro di prevenzione del rischio idrogeologico complessivamente negativo.
Si chiedono in molti come sia possibile che gli organi preposti non comprendano ciò che Legambiente o semplici cittadini denunciano... Potremmo rispondere che è la normalità se l'avversario è un potente.
E per potente non si intende il capo del governo, tanto per citare uno che va per la maggiore... Per essere intoccabili basta possedere terreni edificabili, frequentare circoli nautici o casinò, aver frequentato gli stessi istituti di un magistrato... Potente è colui che costruisce palazzine anche in luoghi impossibili per costruttori "normali" e che può mettere a disposizione agli amici degli amici, appartamenti a prezzo stracciato o imprese per lavori gratuiti in ville; potente è il medico che cura gli interessi e la salute di altri potenti e all'occasione può aiutare a eliminare anche gravidanze scomode; potente è quel personaggio che mette in contatto universi apparentemente lontani (lecito con l'illecito); potente è colui che ha conoscenze al Fallimentare o alla Commissione Tributaria...
Dunque abbiamo dimostrato come fare chiudere gli occhi a qualche controllore. Il sacco edilizio ha precisi responsabili, che, grazie alle coperture e complicità di cui godono tutt'ora, non hanno mai pagato in Tribunale per le loro colpe.
E che vengano oggi certi inviati nazionali a farci la morale - dopo che hanno omesso per anni di scrivere su talune vicende giudiziarie per non avere problemi - ci fa indignare ancora di più: tenetevi i vostri trenta denari di Giuda e non parlate agli italiani onesti che combattono ogni giorno in trincea, di etica e morale.
Sommersi da frane e fango. Dalla Toscana alla Sicilia, il dissesto continua a uccidere. Ma gli interventi per sanare il territorio restano fermi, tra sprechi e scandali. Ecco perché, raccontato dall'Espresso.
Acqua e fango continuano a uccidere indisturbati. Dopo Messina, è toccato a Ischia. Nel 2009 le alluvioni hanno cancellato il Natale di migliaia di famiglie e tenuto prigionieri del mare centinaia di turisti a Capodanno, da Capri alle Eolie. In Toscana l'attesa del 2010 è stata scandita dalla piena del lago di Puccini, il Massaciuccoli, un conto alla rovescia per scongiurare un disastro annunciato. Stessa scena in Liguria, Sardegna, Lazio e Campania. Addirittura i botti hanno lasciato posto a tuoni e tempeste, morti e feriti sono stati quelli dell'acqua e non più dei fuochi d'artificio. E quando è finita la pioggia sono arrivati neve e gelo. I meteorologi lo chiamano "tempo estremo" ma ormai di estremo ha davvero poco. È sempre la stessa tragedia italiana che si ripete quando il cielo diventa nero.
Carmine Abate aveva 44 anni, era lo chef di un ristorante della Costiera amalfitana e stava preparando il pranzo quando il costone roccioso l'ha travolto. Qualche settimana prima era toccato ad Anna, aveva 15 anni e stava andando a scuola. È annegata dentro l'auto ai piedi del monte Epomeo sotto gli occhi dei genitori. Ma la lezione sembra non servire. Basta ritornare a Sarno, dove il fango fece 160 vittime e i lavori sono finiti al 90 per cento. Progetti alla mano, ci sarebbe da stare tranquilli. Si vedono i canali di cemento pronti a imprigionare l'acqua e grandi vasche capaci di raccogliere la terra lavica sciolta in fango. Mancano ancora le case, c'è gente che aspetta da quel 5 maggio 1998, ma nell'Italia delle cattedrali nel deserto averci messo un decennio è considerato un record.
Eppure non è così. È sufficiente spostarsi di qualche chilometro, a San Felice a Cancello sull'altro versante dell'Appennino, e guardare in alto. La montagna franò quella stessa notte, ma i lavori in quota non sono nemmeno cominciati e quelli a valle non sono finiti. Il vecchio alveo Arena che dal Seicento faceva defluire le acque dalla collina Cancello è ridotto a un rigagnolo. Erbacce, detriti e rifiuti ne ostruiscono il corso. L'effetto di un appalto da 23 milioni lasciato a metà. Muri come totem eretti nel bel mezzo della campagna, finché c'erano i soldi e poi abbandonati: puoi correrci in macchina dentro la conduttura di scolo che scende dal monte Sant'Angelo. Passa in mezzo a case, giardini, strade comunali per poi finire nel nulla. L'acqua si accumula nella cava di San Felice, una di quelle descritte in "Gomorra", coprendo immondizia, copertoni, eternit, carcasse di cani e gatti uccisi dai topi. Il sindaco Pasquale De Lucia ha scritto all'Arcadis, l'Agenzia che dal 30 aprile ha sostituito il commissario per l'emergenza di Sarno: «Rileviamo con sconcerto e vergogna che i lavori sono in corso di realizzazione e, fatto ancora più grave, non è dato sapere in che tempi e in che modi gli stessi si concluderanno». Ma i responsabili sono già cambiati, i vecchi uffici smantellati, gli operai scomparsi.
Questa è solo una delle tante storie, dell'Italia che non fa prevenzione. L'ultima denuncia in ordine di tempo arriva dalla Corte dei conti, che ha censito i cantieri fantasma del piano idrico nazionale. Sono opere che oltre a mettere in sicurezza il territorio dovrebbero trasformare quei fiumi d'acqua killer in riserve per i periodi di siccità. Eppure nel Paese dove sette comuni su dieci sono a rischio alluvioni e dove il caldo incenerisce migliaia di ettari di bosco, restano un miraggio. Sono stati approvati progetti per 1,1 miliardi di euro, i fondi del Cipe ci sono, ma i lavori non partono. E se partono, non finiscono mai.
Lo scenario peggiore è al Sud, dove sono arrivati 330 milioni: «Dei 21 decreti di concessione emessi, ne risulta collaudato uno soltanto», scrive la Corte dei conti. Non va molto meglio nella pianura Padana, dove i milioni messi sul piatto sono 770: «Su 45 opere finanziate, ne risultano poste in esercizio 24». Poco più della metà. Per misurare la gravità della situazione, basterebbe un raffronto: l'ex Cassa del Mezzogiorno, che spese 140 miliardi di euro in decenni di sprechi e ruberie, oggi è quella che grida allo scandalo: «Al Sud la situazione è tragica », dice il commissario ad acta Roberto Iodice, l'ingegnere con le lenti spesse che ha ereditato il ramo irrigazione del vecchio baraccone (diventato Agensud e poi soppresso nel 1993 da Giuliano Amato), col compito di attuare in fretta il piano nazionale e poi fare le valigie. Bene, lui è ancora al suo posto e non ci riesce proprio a sbrigare le pratiche. Nel ginepraio di enti che si rimpallano le competenze, spesso i soldi di canali e dighe non fanno in tempo ad arrivare ai consorzi di bonifica, incaricati di indire le gare, che già si sono volatilizzati. La cosa incredibile è che il meccanismo è perfettamente legale. Ecco come fanno.
Dei 60 enti che operano nel Meridione (su 120 in tutto), circa il 25 per cento è oberato dai debiti e firma bilanci in rosso, fra bonifiche mai completate e impianti fatiscenti. Non appena Bankitalia gira i fondi per le opere, a riscuoterli si presentano i creditori con i documenti in mano: «A volte arrivano pochi minuti dopo l'erogazione. Ma ci rendiamo conto?», dice il commissario. Così i soldi pubblici finiscono in tasca ai privati, a Equitalia, all'Inps con la copertura delle stesse leggi che li avevano stanziati per opere di interesse nazionale. «Questo al di là che i debiti dichiarati siano reali, le manutenzioni descritte nei consuntivi siano davvero avvenute e i costi per l'irrigazione siano conformi. Spesso le gestioni sono disinvolte », ammette Iodice, che da anni chiede al Parlamento di vietare i pignoramenti per quei fondi senza che Roma abbia mai varato una legge.
Quando i soldi arrivano finalmente a destinazione, spesso l'iter si ferma di nuovo. La ditta che ha vinto dichiara, pochi mesi dopo, di non avere abbastanza quattrini per finire il lavoro e invoca una variante, poi un'altra e un'altra ancora. I contenziosi sono tanti. Ci sono pendenze di fronte ai tribunali di Salerno, Eboli, Potenza, Campobasso,Vallo della Lucania, Avellino, Bari e Pescara. Decine di istruttorie, revoche di appalti già concessi (ne sono in corso 93), ricorsi contro ditte inadempienti (ce ne sono 38 già aperti), procedure di recupero per oltre 50 milioni di euro. Al Sud sette appalti su dieci vengono aggiudicati con ribassi del 35-40 per cento in Puglia, Calabria, Campania, Sicilia e Sardegna quando nel Nord si scende al massimo del 20 per cento. «Significa che c'è un risparmio », si giustificano le imprese in gara. Non è così.
I prezzi ritoccati servono ad aggiudicarsi il lavoro ma non a finirlo. E la lista è lunga. A Olbia è tutto fermo: la rete idrica che doveva unire il nuovo depuratore al distretto nord della cittadina è rimasta sulla carta, con la risoluzione dei contratti a gara avvenuta. A Nurra piove, ma il progetto da oltre 12 milioni per il recupero delle acque di Sassari è stato assegnato a una ditta che non ha mai nemmeno montato le impalcature. Strano per una delle regioni più a rischio, dove a settembre è morto Andrea Pira, pastore di 38 anni, travolto dalle acque di un torrente. Anche in Puglia ci sono i progetti, ma non si lavora. La vasca di accumulo a Lama di Castellaneta è rimasta sulla carta, pur con 11 milioni già erogati e un bollettino di strade allagate, ferrovie interrotte e ospedali fuori uso per le alluvioni di ottobre. A Catania non è mai partita la sistemazione del canale Cavazzini, un cantiere da 25 milioni vinto con un ribasso del 32 per cento. Troppo: «La ditta che si è aggiudicata il lavoro ci ha chiesto prima ancora di partire di modificare il materiale della condotta principale, perché quello previsto dal loro stesso progetto costava troppo», spiegano all'ex Agensud. «Sono cose incredibili, che avvenivano in passato. Oggi la legge Merloni lo vieta, l'iter si ferma per anni e si deve ricominciare da zero».
Piemonte, Veneto e Lombardia stanno un po' meglio. Hanno avviato tutte le procedure, anche se si lavora a rilento. Le opere in funzione sono ancora troppo poche, secondo i giudici contabili. Così pure in Toscana e in Emilia Romagna: «Nella maggior parte dei casi non sono rispettate le date di consegna, dilatate dalle proroghe concesse e dalle varianti», dice la Corte dei conti. Che nella pratica significa che ci sono cantieri ancora aperti lungo l'Adda o il Po, che gli impianti irrigui in prossimità di fiumi e laghi non sono pronti, pur progettati da anni, che molta acqua è fuori controllo o viene sprecata, con danni all'agricoltura e rischi per gli abitanti. Dei quattro interventi da 127 milioni classificati come urgenti dal piano idrico, nessuno è stato ancora collaudato. Si tratta di dighe, come quella di Montedoglio in Valdichiara. Ma c'è anche il dolo. Come a Genova dove il torrente Bisagno è coperto da viale Brigate Partigiane, proprio dove le acque invasero la città durante l'alluvione del 1970 che uccise 44 persone. Il Comune sta spendendo 170 milioni per aumentare la portata eppure a monte si continua a edificare.
A La Spezia, a pochi chilometri dalla foce del Magra, l'Anas progetta uno svincolo stradale: «Più del 70 per cento dei Comuni realizza opere di messa in sicurezza che aumentano la fragilità del territorio invece che diminuirla », denuncia Legambiente. Addirittura i controlli anti-mafia finiscono per bloccare gli appalti.
Capita che in gara ci siano aziende con tutte le carte in regola che poi lasciano i lavori a metà, fuggendo con i quattrini. Mentre le ditte che hanno sempre portato a termine i cantieri si trovano eliminate a causa di ricorsi ad hoc, che si appigliano a timbri e vizi di forma. È successo a Salerno con un'impresa veneta: «Alcune dichiarazioni emesse per ottenere i requisiti certificavano lavori non effettuati, che tuttavia nulla centravano col tipo di opera messa a gara. Così abbiamo dovuto bloccare tutto e ricominciare. Con l'assurdo che, chi le carte le ha in regola spesso non costruisce », denuncia il commissario: «È giusto fare i controlli, ma devono essere finalizzati a far meglio e non peggio ». Metteteci anche l'Ance, l'associazione dei costruttori, che sempre più spesso al Sud si rivolge al Tar se il bando non contiene l'aggiornamento dei prezzi a carico delle Regioni e perennemente in ritardo. Un problema che al Nord si supera alzando le offerte ed evitando così di perdere anni per una manciata di euro. E che in Sicilia finisce davanti al giudice. Gli ultimi tre casi a Catania, Trapani e Caltanissetta con altrettanti canali mai realizzati. «Qualcuno ci marcia», tuona Iodice: «Ora dovremo aggiornare i progetti, ripetere i bandi, le assegnazioni e i pareri. Con costi enormi e tempi lunghissimi». Come se fango e frane possono attendere le lungaggini della giustizia italiana per tornare a colpire.
ECOMAFIE
ECOMAFIE: 70 REATI AL GIORNO E UN BUSINESS DA 20 MILIARDI DI EURO
Una montagna di rifiuti speciali alta come l’Etna
(3.100 metri, pari a 31 milioni di tonnellate) inghiottita dalla terra. 28mila
edifici abusivi, interi quartieri, costruiti in un anno. E 25.776 reati
accertati contro l’ambiente, per un giro d’affari complessivo sopra i 20
miliardi di euro, un quinto circa del fatturato globale delle mafie.
Cifre e immagini evocative date dall’ultimo rapporto sulle ecomafie in Italia
stilato da Legambiente.
Crescono le agromafie, il racket degli animali, il traffico di rifiuti
pericolosi.
Altro grande business delle ecomafie è poi l’abusivismo edilizio e i reati contro il patrimonio naturale.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO
Nelle otto maggiori città italiane l'inquinamento atmosferico urbano è stato responsabile nell'anno 2000 di 3.472 decessi, 4.597 ricoveri ospedalieri, decine di migliaia di casi di disturbi bronchiali e asmatici ogni anno, 10 morti al giorno per smog.
I dati, che vennero discussi da Legambiente e Oms nel corso di un seminario su "Inquinamento urbano e salute in Italia e in Europa: dall'evidenza dei dati all'urgenza delle politiche", appaiono drammaticamente gravi.
Lo studio del Centro Europeo Ambiente e Salute dell'Oms mette infatti in evidenza l'impatto sulla salute dei cittadini delle alte concentrazioni di inquinanti nell'aria delle città italiane calcolando le morti, i ricoveri ospedalieri ed i casi di malattia imputabili alle concentrazioni medie di PM10 (la frazione respirabile delle polveri che grazie al piccolo diametro può arrivare sino alle vie più profonde portandosi dietro sostanze altamente inquinanti e spesso cancerogene come il benzoapirene.
L'attuale normativa europea che si pone così all'avanguardia in Italia e in Europa, stabilisce provvedimenti di limitazione della circolazione quando il limite di attenzione di 50 microgrammi per metro cubo di polveri giornalieri viene superato per più giorni di seguito, e il blocco totale della circolazione in caso di superamento del livello di allarme pari a 100 microgrammi per metro cubo.
Per quanto riguarda la media annuale, invece, la normativa europea fissa un limite di 40 microgrammi per metrocubo che si prevede di portare ad uno standard (entro il 2010) di 20m g/m3. L'impatto dell'inquinamento da PM10 sulla salute dei residenti stimato nelle 8 maggiori città italiane, ha rivelato che nella popolazione di oltre trenta anni, il 4.7% di tutti i decessi osservati nel 1998, pari a 3.472 casi, è attribuibile al PM10 in eccesso di 30m g/m3. Se ne desume che riducendo il PM10 ad una media di 30m g/m3 si potrebbero prevenire circa 3.500 morti all'anno soltanto nelle otto città più grandi.
Si aggiungono inoltre stime di migliaia di ricoveri per cause respiratorie e cardiovascolari, e decine di migliaia di casi di bronchite acuta e asma fra i bambini al di sotto dei quindici anni, che potrebbero essere evitati riducendo le concentrazioni medie di PM10 a 30m g/m3. "La salute pubblica va salvaguardata con ogni mezzo, dichiarò durante il convegno il presidente uscente nazionale di Legambiente Ermete Realacci, "Amministratori e sindaci dovrebbero impegnarsi in maniera decisiva affinché quello dell'inquinamento non sia più il principale male delle nostre città. Migliorare la mobilità, rendere più veloci i percorsi degli autobus proteggendo le corsie preferenziali, sostenere l'uso di mezzi alternativi: dal car-sharing all'auto in multiproprietà, fino alla sperimentazione di veicoli alimentati con tecnologie più moderne e ecocompatibili, sono tutti possibili interventi per contenere l'inquinamento atmosferico e per ottenere importanti ricadute in termini di salute e di costi sociali. In merito si potrebbe dare la parola ai cittadini con i referendum consultivi in tema di traffico e mobilità".
"I nostri dati", spiegava Roberto Bertollini, direttore del Centro Europeo Ambiente e Salute dell'OMS, "dimostrano la gravità dell'inquinamento atmosferico nelle città italiane. Questo studio non considera che una parte del problema (alcuni effetti delle polveri fini) e fornisce verosimilmente una sottostima, ma è ormai evidente che migliaia di cittadini italiani di tutte le età che vivono nelle grandi città si ammalano e muoiono a causa dell'inquinamento urbano che si somma e moltiplica gli effetti di altri fattori di rischio per la salute. Decine di migliaia di attacchi d'asma e casi di bronchite acuta nei bambini sono evitabili.
E sfortunatamente il problema è condiviso dalle città italiane con altre metropoli europee, come dimostrato da un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet ed effettuato con la stessa metodologia da noi impiegata in Italia. Occorre promuovere politiche di contenimento delle emissioni che coinvolgano i cittadini, e che mirino ad una effettiva e duratura riduzione dell'inquinamento atmosferico che nelle città italiane è principalmente e per gran parte dell'anno associato al traffico veicolare". I benefici potenzialmente raggiungibili dipendono naturalmente da quanto si riducono le concentrazioni. Con abbassamenti più o meno accentuati, i benefici sarebbero in proporzione. Ad esempio per la mortalità (ma analoghe considerazioni valgono per tutti gli esiti sanitari) riducendo l'inquinamento a 40m g/m_ sarebbe possibile evitare circa 2000 morti; riducendolo a 30m g/m sarebbe possibile evitarne circa 3500; riducendo l'inquinamento a 20m g/m_ sarebbe possibile evitare circa 5500 morti.
Uno studio condotto nel 2000 in Austria, Francia e Svizzera sui costi sanitari dell'inquinamento atmosferico ha evidenziato che il numero dei casi di bronchite acuta nei bambini attribuibili all'inquinamento atmosferico (PM10 in totale) sono ben 543.300, di cui 300.000 dovuti proprio allo smog generato dal traffico veicolare. Dei 37.800 ricoveri ospedalieri determinati dall'inquinamento atmosferico, ben 25.000 sono dovuti ai veleni prodotti dal traffico, così come 162.000 casi di attacchi di asma nei bambini (sul totale di 300.900).
Su 30.5 milioni di giorni lavorativi ridotti a causa di malattie respiratorie, ben 16 milioni sono generati dall'inquinamento da traffico, mentre per la mortalità nei tre paesi, lo studio fornisce oltre 40.500 casi di cui 21.000 attribuibili sempre allo smog da traffico. Nei tre Paesi l'inquinamento atmosferico riconducibile al traffico veicolare produce costi per 27 miliardi di Euro l'anno, pari a 360 Euro pro capite.
INQUINAMENTO DELLE ACQUE
Contaminazione dell’acqua causata dall’immissione di sostanze quali prodotti chimici e scarichi industriali e urbani, che ne alterano la qualità compromettendone gli abituali usi.
Alcuni dei principali inquinanti idrici sono: le acque di scarico contenenti materiali organici che per decomporsi assorbono grandi quantità di ossigeno; parassiti e batteri; i fertilizzanti e tutte le sostanze che favoriscono una crescita eccessiva di alghe e piante acquatiche; i pesticidi e svariate sostanze chimiche organiche (residui industriali, tensioattivi contenuti nei detersivi, sottoprodotti della decomposizione dei composti organici); il petrolio e i suoi derivati; metalli, sali minerali e composti chimici inorganici; sabbie e detriti dilavati dai terreni agricoli, dai suoli spogli di vegetazione, da cave, sedi stradali e cantieri; sostanze o scorie radioattive provenienti dalle miniere di uranio e torio e dagli impianti di trasformazione di questi metalli, dalle centrali nucleari, dalle industrie e dai laboratori medici e di ricerca che fanno uso di materiali radioattivi.
Anche il calore liberato nei fiumi dagli impianti industriali e dalle centrali elettriche attraverso le acque di raffreddamento può essere considerato un inquinante, in quanto provoca alterazioni della temperatura che possono compromettere l’equilibrio ecologico degli ecosistemi acquatici e causare la morte degli organismi meno resistenti, accrescere la sensibilità di tutti gli organismi alle sostanze tossiche, ridurre la capacità di autodepurazione delle acque, aumentare la solubilità delle sostanze tossiche e favorire lo sviluppo di parassiti.
Le sostanze contaminanti contenute nell’acqua inquinata possono provocare innumerevoli danni alla salute dell’uomo e all’equilibrio degli ecosistemi. La presenza di nitrati (sali dell’acido nitrico) nell’acqua potabile, ad esempio, provoca una particolare condizione patologica nei bambini che in alcuni casi può condurre alla morte. Il cadmio presente in certi fanghi usati come fertilizzanti può essere assorbito dalle colture e giungere all’uomo attraverso le reti alimentari; se assunto in dosi elevate, può provocare forti diarree e danneggiare fegato e reni. Tra gli inquinanti più nocivi per l’uomo vi sono alcuni metalli pesanti, come il mercurio, l’arsenico, il piombo e il cromo.
Gli ecosistemi lacustri sono particolarmente sensibili all’inquinamento. L’eccessivo apporto di fertilizzanti dilavati dai terreni agricoli può avviare un processo di eutrofizzazione, cioè di crescita smodata della flora acquatica. La grande quantità di alghe e di piante acquatiche che si viene a formare deturpa il paesaggio, ma soprattutto, quando si decompone, consuma l’ossigeno disciolto nell’acqua, rende asfittici gli strati più profondi del lago e produce odori sgradevoli. Sul fondo del bacino si accumulano sedimenti di varia natura e nelle acque avvengono reazioni chimiche che mutano l’equilibrio e la composizione dell’ecosistema (quando le acque sono molto calcaree si ha, ad esempio, la precipitazione di carbonato di calcio). Un’altra fonte di inquinamento idrico è costituita dalle cosiddette piogge acide, che hanno già provocato la scomparsa di ogni forma di vita da molti laghi dell’Europa settentrionale e orientale e del Nord America.
Gli inquinanti delle acque provengono soprattutto dagli scarichi urbani e industriali, dai processi di percolazione, dai terreni agricoli e dalle aziende zootecniche.
Le acque di scarico urbane e industriali rappresentano una delle fonti principali di inquinamento idrico. Finora l’obiettivo primario dei programmi di smaltimento degli scarichi urbani è stato quello di ridurre la concentrazione delle sostanze solide in sospensione, dei materiali organici, dei composti inorganici disciolti (soprattutto quelli contenenti fosforo e azoto) e dei batteri nocivi presenti nei liquami immessi negli impianti di depurazione, per potere, poi, scaricare le acque depurate nell’ambiente. Da qualche tempo, tuttavia, una maggiore attenzione viene rivolta anche al delicato problema del trattamento e dello smaltimento dei fanghi che si producono nei processi di depurazione.
Nei moderni depuratori i liquami passano attraverso tre fasi distinte di trattamento. La prima, detta trattamento primario, comprende una serie di processi fisici o meccanici di rimozione dei detriti più grossolani, di sedimentazione delle particelle in sospensione e di separazione delle sostanze oleose. Nella seconda fase, detta trattamento secondario, si ossida la materia organica dispersa nei liquami per mezzo di fanghi attivi o filtri biologici. La terza fase, il trattamento terziario, ha lo scopo di rimuovere i fertilizzanti per mezzo di processi chimico-fisici, come l’assorbimento su carbone attivo. In ogni fase vengono prodotte notevoli quantità di fanghi, il cui trattamento e smaltimento assorbe il 25-50% dei costi di impianto e di esercizio di un comune depuratore.
Gli scarichi industriali contengono una grande varietà di inquinanti e la loro composizione varia a seconda del tipo di processo produttivo. Il loro impatto sull’ambiente è complesso: spesso le sostanze tossiche contenute in questi scarichi rinforzano reciprocamente i propri effetti dannosi e quindi il danno complessivo risulta maggiore della somma dei singoli effetti. La concentrazione di inquinanti può essere ridotta limitandone la produzione all’origine, sottoponendo il materiale a trattamento preventivo prima di scaricarlo nella rete fognaria o depurando completamente gli scarichi presso lo stesso impianto industriale, recuperando, eventualmente, le sostanze che possono essere reintrodotte nei processi produttivi.
I fertilizzanti chimici usati in agricoltura e i liquami prodotti dagli allevamenti sono ricchi di sostanze organiche (contenenti soprattutto azoto e fosforo) che, dilavate dalla pioggia, vanno a riversarsi nelle falde acquifere o nei corpi idrici superficiali. A queste sostanze si aggiungono spesso detriti più o meno grossolani che si depositano sul fondo dei bacini. Pur contenendo spesso organismi patogeni, i liquami di origine animale vengono scaricati a volte direttamente sul terreno e da qui sono trasportati dall’acqua piovana nei fiumi, nei laghi e nelle falde sotterranee. In questo caso, per limitare l’impatto degli inquinanti si possono adottare semplici soluzioni, come l’uso di bacini di decantazione o di vasche per la depurazione dei liquami.
L’inquinamento del mare è dovuto alle immissioni accidentali o intenzionali di petrolio e oli combustibili, all’apporto di sostanze inquinanti trasportate dai corsi d’acqua e agli scarichi degli insediamenti costieri. Questi ultimi, in particolare, contengono ogni sorta di contaminanti (metalli pesanti, sostanze chimiche tossiche, materiale radioattivo, agenti patogeni) e spesso sono all’origine di epidemie di tifo, colera, salmonellosi e altre malattie infettive. Gli inquinanti vengono trasportati dalle correnti marine lungo le coste e in alto mare, a media e lunga distanza. Ovviamente, la contaminazione dei mari varca le frontiere delle acque territoriali dei singoli stati ed è oggetto di trattati internazionali che mirano a limitarne l’entità.
Il petrolio e gli oli combustibili riversati in mare formano sulla superficie dell’acqua pellicole oleose che, impedendo l’assorbimento dell’ossigeno atmosferico, provocano morie di organismi marini. Nel petrolio, inoltre, sono presenti anche idrocarburi aromatici che possono costituire un grave pericolo per la salute dell’uomo, al quale giungono attraverso la catena alimentare marina. La fonte dell’inquinamento, in questo caso, è data dai riversamenti di grandi quantità di greggio dalle petroliere coinvolte in incidenti, dal deliberato rilascio di piccole quantità di derivati del petrolio da navi di vario tipo e dalle perdite di petrolio che si verificano nel corso delle operazioni di trivellazione presso le piattaforme petrolifere marine. Si calcola che per ogni milione di tonnellate di petrolio trasportate via mare, una tonnellata vada dispersa a causa di riversamenti di varia natura.
Il pericolo maggiore è rappresentato dagli incidenti che non di rado interessano le superpetroliere. Nel 1978 la petroliera Amoco Cadiz riversò in mare, al largo delle coste francesi, 1,6 milioni di barili di greggio; nel 1979 dal pozzo petrolifero Ixtoc I, nel golfo del Messico, fuoriuscirono 3,3 milioni di barili. I 240.000 barili di greggio riversati dalla Exxon Valdez nella baia di Prince William, nel marzo del 1989, si estesero in tutta l’insenatura formando una macchia oleosa di ben 6770 km² che compromise l’esistenza di molte specie marine e danneggiò gravemente non solo gli ecosistemi locali, ma anche l’attività di pesca nella zona. Viceversa, i 680.000 barili di greggio riversati dalla Braer lungo le coste delle isole Shetland nel gennaio del 1993 furono subito dispersi dal moto ondoso, poiché al momento dell’incidente il mare era in burrasca.
IMPIANTI DI DEPURAZIONE IN ITALIA
Scarsa conoscenza degli impianti, controlli insufficienti, inosservanza della normativa: sono le principali irregolarità emerse dalle acque impure degli impianti di depurazione italiani. La nostra inchiesta non lascia dubbi: la situazione è disomogenea, ma sono comunque troppi i casi limite del servizio idrico. Mentre si spendono inutili miliardi per impianti mai collaudati, la siccità avanza. I depuratori (e quindi la possibilità di reintrodurre l’acqua inquinata nell’ambiente) sono, insieme al risparmio delle risorse idriche, gli unici rimedi efficaci contro la mancanza di acqua. Invece nel nostro Paese il funzionamento degli impianti di depurazione è quanto mai critico.
Lo denuncia anche un’indagine del Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri.
Per la nostra indagine ci siamo rivolti alle Arpa, le Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente. Purtroppo, le Regioni che hanno collaborato restituendoci il questionario sono solo otto. Di queste non solo abbiamo apprezzato la disponibilità, ma abbiamo avuto modo di verificare l’efficienza. Al contrario, il silenzio di chi non ha risposto rivela la scarsa attenzione di gran parte del Paese alla gestione delle acque e agli impianti di depurazione: mancano conoscenze, che sarebbero indispensabili per una corretta gestione delle acque reflue. Pensiamo che in molte realtà importanti (è il caso di Milano, per esempio, città nota per non aver mai avuto un depuratore…) l’emergenza acqua dovrebbe essere affrontata più seriamente.
È un’Italia ancora con molte carenze quella che esce da una disamina ad hoc sui servizi idrici, messi questa volta sotto la lente del “Blue Book 2009”: se da una parte i costi affrontati ogni mese da una famiglia media arrivano a sfiorare appena i 20 euro, molto meno delle spese affrontate ad esempio per bollette telefoniche e combustibili, dall’altra emerge un Paese ancora alle prese con una rete fognaria tuttora non all’altezza, con picchi negativi, dal punto di vista della copertura, in Sicilia, Toscana e Campania.
A livello territoriale, informa il
Rapporto, il record per il costo più alto per i servizi idrici se
l’è aggiudicata Agrigento (con una spesa annua di 440 euro), seguita
da Arezzo (410) e Pesaro e Urbino (409); diversamente i costi più
contenuti sono stati quelli sopportati da Milano (103 euro), Treviso
e Isernia (108 e 109 euro).
Altro capitolo dolente analizzato dal Blue Book è quello, purtroppo
annoso, degli impianti di fognatura e di depurazione, di cui sarebbe
privo rispettivamente il 15 e il 30% del Paese. A fronte infatti di
una rete totale di 337.452 chilometri di acquedotti, il servizio di
fognature, con una rete complessiva di poco meno di 165 mila
chilometri, coprirebbe soltanto l’84,7% dei cittadini, quota che
scende al 70% per quanto riguarda i sistemi di depurazione. A
livello regionale, quest’ultimo capitolo vede la Sicilia maglia nera
per gli impianti di depurazione, con una copertura del 53,9%,
seguita da Toscana (62,7%), Campania (67%) e Sardegna (68%). Quanto
alla rete fognaria, le situazioni più critiche riguardano Sardegna e
Liguria (entrambe 75%), Umbria (77,1%) e Veneto (78,1%).
INQUINAMENTO AMBIENTALE
L'inquinamento del suolo non può essere considerato come un fenomeno autonomo:è sempre strettamente collegato all'inquinamento dell'acqua perché è provocato spesso dallo scarico di liquami oppure perché può produrre come contaminazione l'inquinamento della falda acquifera sotterranea.
Nel terreno si verifica il ciclo dell'azoto,molto importante perché tutti i tipi di vita hanno bisogno d'azoto, che è uno dei componenti essenziali della materia vivente. per aumentare la produzione agricola l'uomo, invece,ha introdotto spesso la monocoltura, che ha spezzato gli equilibri biologici ed impoverito la fertilità naturale del terreno, richiedendo l'uso dei diserbanti, insetticidi concimi azotati prodotti dall' industria chimica. un'altra grave causa d'inquinamento del suolo è costituita dalla massa di rifiuti solidi prodotti dalla città(in Italia 0,7Kg al giorno per abitante)e dalle industrie. i rifiuti urbani sono formati da scarti organici alimentari,da carta, materie plastiche, bottiglie di vetro, contenitori metallici ecc. ed anche da fanghi provenienti dagli impianti di depurazione dell'acqua.
I rifiuti industriali contengono materiali speciali e tossici come scarti o sottoprodotti dei processi di lavorazione chimica o meccanica. per evitare l'inquinamento del suolo, i rifiuti urbani devono essere convogliati nelle discariche controllate, ovvero in aree opportune in cui i rifiuti d'origine organica possano decomporsi. Sarebbe meglio fare una raccolta differenziata dei rifiuti al fine di recuperare e riciclare taluni materiali come la carta e il vetro.
Si alternano strati di rifiuti e stati d'inerte, in modo che in assenza d'aria si realizzi un processo di decomposizione riduttivo con trasformazione finale dei rifiuti.
Le discariche devono essere localizzate in posizioni caratterizzate da grandi spessori di strati impermeabili, e distanti dalle falde acquifere sotterranee. talvolta può essere vantaggioso usufruire di cave abbandonate di pietra, argilla o sabbia, contribuendo cosi anche al recupero delle aree degradate; quando la cava viene riempita con i rifiuti si può procedere al recupero finale, ricoprendo la distanza con uno strato di terreno su cui realizzare prati o boschi. per i rifiuti industriali e' necessario invece adottare sistemi di smaltimento adeguati, evitando ogni pericolo di contatto con le falde acquifere sottostanti.
Le eventuali aree di raccolta devono allora avere fondi resi impermeabile nel tempo con argilla, catrame o cemento. si può ricorrere all'eliminazione dei rifiuti mediante altri metodi: IL COMPOSTAGGIO, cercando di trasformare i rifiuti in composti utilizzabili come concimi LA COMBUSTIONE con semplice incenerimento,oppure con produzione d'idrocarburi liquidi o gassosi.
Fra i tanti veleni che contaminano la nostra Terra quasi esausta, uno dei più subdoli è l’amianto. Questo minerale appartenente al gruppo dei silicati possiede caratteristiche fisiche speciali e ricercate (resistenza, refrattarietà al fuoco e straordinaria duttilità: una sua fibra è 1300 volte più sottile di un capello umano). Ma l’inalazione anche di una sola fibra può causare patologie mortali. Mesotelioma pleurico, asbestosi o fibroma polmonare, lesioni pleuriche e peritoneali, carcinoma bronchiale: sono questi i nomi, davvero spaventosi, dei mali incurabili inequivocabilmente collegati all’esposizione ad amianto.
Ogni anno in Italia sono circa 4000 i morti per mesotelioma e asbestosi. Nel mondo, circa 100.000. In questi numeri da brivido (il picco mondiale dovrebbe raggiungersi fra decina d’anni) è il sunto di una storia: “Amianto, storia di un killer”.
È una storia che andrebbe ascoltata, se non altro perché ci riguarda tutti da vicino. La racconta Stefania Divertito, scrittrice e giornalista già premiata dall’Unione cronisti italiani nel 2004 per l’inchiesta sull’uranio impoverito, abbinando metodo scientifico rigoroso e fine sensibilità, e un tono piacevole mai sopra le righe.
Su e giù per l’Italia, visitando porti cantieri discariche e poi aule di tribunali e stanze d’ospedale, bussando a tanti portoni per raccogliere testimonianze dirette dalle famiglie delle vittime e dei lavoratori che ancora lottano per un risarcimento, o semplicemente per veder riconosciuti i propri diritti.
L’Italia è uno dei paesi mondiali che ha fatto un uso più massiccio di amianto, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso e fino alla sua messa al bando nel 1992. Molte delle case popolari degli anni ‘50 ne sono ancora imbottite, ma è presente anche in scuole, università, ristoranti, uffici pubblici, magazzini, autorimesse, alberghi, stabilimenti balneari, aziende, perfino ambulatori medici.
C’è di sicuro nelle tantissime discariche abusive a cielo aperto, a contatto dei cittadini che lì vicino vi transitano.
Le bonifiche sono state, a seconda delle regioni, più o meno parziali. In ogni caso nel 17,65% degli istituti scolastici italiani è stata accertata la presenza di amianto, secondo uno studio di settore della Cgil compiuto nel 2008. Studi recenti testimoniano che per ammalarsi potrebbe essere sufficiente aver respirato anche solo una volta la polvere nociva.
Visto che fino a poco tempo fa l’amianto era onnipresente nelle nostre vite e il rischio riguarda anche i semplici cittadini, inconsapevolmente troppo vicini a qualche discarica abusiva o a una tettoia di Eternit, la prevenzione dovrebbe essere capillare. Invece è disturbante individuare ancora una volta tra le pieghe di questa storia la regia dell’inquinamento globalizzato, dal primo anello della catena – i produttori di materiali pericolosi ma a basso costo come l’amianto, con le loro politiche centrate sull’economia a discapito della salute – all’ultimo, cioè lo smaltimento illegale dei rifiuti tossici.
In Italia il diritto al risarcimento per le malattie ad esso collegate è stato ed è ostacolato, oltre che dai vertici delle lobby guidate a livello mondiale dall’industria canadese, da normative incomplete e confuse, cavilli che sfidano il buon senso: per esempio, i lavoratori del settore marittimo non riescono ad accedere ai benefici previdenziali perché per dimostrare di aver lavorato in ambienti contaminati con l’amianto dovrebbero farsi firmare il curriculum da armatori che nella maggior parte dei casi sono falliti, fuggiti, deceduti.
“Come l’esportazione e il consumo di questo materiale non ha confine, anche le battaglie contro di esso non lo hanno”, scrive l’autrice.
INQUINAMENTO ACUSTICO
Nell’annuario dei dati ambientali 2006 l'ISTAT ha rilevato che il 37,8% delle famiglie italiane segnala problemi relativi all'inquinamento acustico. Un dato questo certamente preoccupante, conseguenza, in parte, della scarsa attenzione che, fino ad oggi, è stata riservata alla materia.
Le cause di tale disfatta sono molteplici, a partire da quelle socio-culturali, giacché una qualche sensibilità ai temi ambientali si è diffusa nel nostro Paese solo in tempi abbastanza recenti, allorquando abbiamo potuto “toccare con mano” i danni causati dall’inquinamento. Questo modo di operare ha impedito di avviare una vera e propria programmazione, propedeutica a una politica di prevenzione, affiancata a interventi su singoli e specifici casi come, di regola, è necessario fare.
Quando parliamo di interventi di riduzione del rumore non esistono soluzioni efficaci che siano attuabili dall’oggi al domani. E’ necessario, invece, partire da lontano, per mezzo di direttive atte a regolamentare, ad esempio, lo sviluppo delle aree abitate, a promuovere e incentivare una mobilità sostenibile e razionale, attraverso il graduale passaggio dal trasporto su gomma a quello su ferro, specie per quel che riguarda il traffico delle merci, settore che negli ultimi anni ha conosciuto un elevato tasso di crescita. In altre parole, bisogna avere il coraggio di cambiare, di adottare soluzioni innovative che, oramai da tempo, sono utilizzate in numerosi Paesi europei.
Non basta promulgare nuove leggi per cambiare il modo di agire e di pensare della popolazione, anche perché quelle presenti sono già tante, forse troppe. Piuttosto, si deve passare da una politica del “dire” a una politica del “fare”, attraverso lo sviluppo di idee chiare, muniti di una buona dose di determinazione, nell’interesse di un Paese che è tanto amato dagli italiani, quanto dai numerosi stranieri che, ogni anno, giungono in Italia attirati dall’ospitalità, dalla buona cucina, dai suggestivi paesaggi, dalla cultura e, speriamo presto, dal poter vivere in un ambiente silenzioso.
L’Italia in passato ha saputo sollevarsi da situazioni molto difficili, grazie al lavoro e all’impegno di un popolo generoso. Ci auguriamo che un ulteriore sforzo possa essere compiuto per rendere la nostra vita un tantino migliore, almeno per quel che riguarda il rumore.
INCENDIOPOLI IN ITALIA
Allegato B
Seduta n. 204 del 13/9/2007
AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE
Interrogazione a risposta in Commissione:
FASOLINO. - Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute, al Ministro della difesa, al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. - Per sapere -premesso che:
gli incendi in Italia calcolati dal 1 gennaio 2007, al 19 agosto 2007, hanno raggiunto il numero record di ben 5735 eventi, con oltre 95.000 ettari colpiti di cui ben 44.000 ad essenze boschive;
dopo il 19 agosto 2007, con un'impennata eccezionale giovedì 23 agosto allorché si è raggiunta, in una sola giornata, la cifra di 304 episodi, il numero degli incendi è progressivamente lievitato con danni incalcolabili alla salute, all'economia, all'immagine internazionale e alla bellezza naturale del nostro Paese;
sono andati distrutti boschi di valore inestimabile, con piante di alto fusto, come pini, lecci, querce, castagni e faggi oltre a macchia mediterranea ricca di lentischi, mirti, ginepri, corbezzoli e ginestre insieme con arbusti vari tipici dei territori colpiti;
sono stati arsi vivi e uccisi uccelli, spesso ancora implumi, e animali da pelo, insetti e creature di ogni tipo;
gli animali scampati al fuoco hanno perduto il loro habitat naturale e sono stati costretti a stanziarsi in ambito diverso, con gravi ripercussioni per l'ecosistema e turbativa alla stessa attività umana;
purtroppo, a Patti in Sicilia hanno perduto la vita anche 5 persone. Numerosi gli intossicati, molte le case distrutte dalle fiamme;
i danni causati all'atmosfera sono di straordinario rilievo;
un albero di alto fusto assorbe ogni giorno circa 60 kg di anidride carbonica e libera 50 kg di ossigeno. Da un incendio si sprigionano notevoli quantità di anidride carbonica, ossido di carbonio e altre sostanze tossiche a fronte di un consistente consumo di ossigeno per cui viene a prodursi, fra le altre conseguenze negative, un notevole aumento dell'effetto serra;
fino al 19 agosto, la Calabria è risultata la regione più colpita con 1.175 eventi, seguita a ruota dalla Campania con 1.056 eventi. Sono queste, anche, le regioni con il maggior numero di operai stagionali forestali alle dipendenze delle Comunità montane. Puglia e Basilicata seguono con 345 e 246 incendi. Sembrano pochi, rispetto ad altre regioni molto più estese, come la Toscana ed il Lazio e invece sono dati che rivaleggiano con quelli di Calabria e Campania. Nella Puglia i boschi collinari e montani sono rari e nella Basilicata la superficie regionale è di molto inferiore a quella di Calabria e Campania;
Puglia e Basilicata, manco a dirlo, danno lavoro ad un alto numero di operai stagionali forestali. La Sicilia offre la prova del nove dello stretto rapporto intercorrente tra corposità dell'organico di operai stagionali delle Comunità montane e numero di incendi. Sempre fino al 19 agosto 2007, si sono registrati in Sicilia solo 214 incendi. La Sicilia, pare, abbia soltanto pochi operai stagionali forestali. Va comunque notato che in Sicilia il 98 per cento della superficie incendiata appartiene a privati;
a tutt'oggi, mese di Settembre 2007, è dato registrare, rispetto al 2006 un incremento di quasi il 60 per cento nel numero degli incendi in Italia, e di un incremento del 300 per cento di superficie colpita e di oltre il 300 per cento di boschi distrutti;
in provincia di Salerno l'interrogante è stato spettatore oculare di un episodio gravissimo. È bene esporlo: martedì 21 agosto ore 23 vengono avvistati i primi fuochi sulle colline di Montecorice e di Castellabate. Mercoledì 22 agosto ore 15, nei due Comuni, a 16 ore di distanza non è comparso ancora un elicottero o un canadair. Si faranno vedere solo verso le 16,30. Naturalmente quando è ormai troppo tardi. Sarebbe bastato che intervenissero nelle prime ore del mattino, già dalle ore 7,30, per evitare il disastro;
dopo pochi giorni sul Monte Calpazio, in territorio di Capaccio-Paestum patrimonio mondiale dell'UNESCO, sono intervenuti gli elicotteri, come suol dirsi, solo a babbo morto, dopo ore di attesa e di trepidazione;
risultato: è andato in fumo uno dei boschi più pregiati del mondo intero. Di contro bisogna registrare che gli aiuti terrestri coordinati da vigili del fuoco e Forze dell'ordine, sono stati sempre efficienti ed encomiabili. In conclusione all'interrogante sembra sia clamorosamente mancata una strategia di coordinamento tra Governo nazionale, Regioni, Prefetture e Protezione civile. È mancata un'attenta valutazione di cause e concause, non si ha notizia di alcun allarme preventivo scattato quando le previsioni meteo annunciavano caldo torrido e forte vento;
le dichiarazioni del Ministro Parisi per un intervento dell'Esercito valgono solo a memoria futura, semmai per il 2008 e per i prossimi anni, se saranno onorate;
in realtà più volte, da più parti è stato sollecitato l'intervento dell'esercito ma, poi, non se ne è fatto mai nulla;
l'impiego dell'Esercito va ritenuto come lo strumento indispensabile per combattere efficacemente questa vera e propria forma di terrorismo che non appartiene solo al nostro Paese, ma, con modulazioni diverse, è diffusa in tutto il mondo;
chi meglio dell'esercito può presidiare con efficacia un territorio, controllarne accessi e vie di fuga, intervenire con prontezza per qualsiasi evenienza? Gli speranzosi dicono: se son rose fioriranno;
l'intervento dell'esercito verrebbe anche a tacitare una vulgata diffusissima nelle regioni meridionali: fronteggiare le escalation degli incendi con un'escalation di assunzioni di stagionali e l'impinguamento dei ranghi della Protezione Civile. Va seguita esattamente la strada opposta. Analogo discorso va tenuto per le ditte affidatarie di appalti dei mezzi aerei. Il nemico si può annidare anche lì; vanno verificate le risposte alle chiamate, l'efficacia degli interventi, i tempi impiegati;
il silenzio, peraltro doveroso, osservato dalla Magistratura sulle indagini compiute negli anni passati e sulle condanne irrogate ai colpevoli al termine dei procedimenti relativi ai numerosissimi incendi appiccati in ogni parte d'Italia, può avere indotto, anche per lo scarso rilievo dato dai media alle decisioni, all'errata convinzione di una impunità diffusa che può aver conferito nuova linfa alla criminalità incendiaria -:
quale sia, almeno rispetto agli eventi degli ultimi dieci anni, il numero dei procedimenti aperti e delle condanne inflitte, se le pene sono state scontate, se lo Stato, le regioni e i privati siano stati risarciti dai colpevoli per i danni subiti e se risulti che, in occasione di nuovi eventi, almeno nell'ambito dei territori specifici, i colpevoli di precedenti incendi siano stati sentiti dalla Magistratura inquirente e dalle Forze dell'ordine e se ne siano verificati gli eventuali alibi;
se tutte le Forze dell'ordine siano in possesso di un elenco degli incendiari;
se il Governo intenda esperire un'indagine urgente sul clamoroso episodio denunciato dall'ANCI regionale siciliana secondo cui nei caldi giorni di agosto oltre la metà dei dipendenti della Protezione civile era in ferie. (5-01438)
http://www.afgp.it/elettro2004/inquinamento/terra.htm
http://blog.panorama.it/libri/2009/11/03/amianto-storia-di-un-serial-killer/
http://www.inquinamentoacustico.it/caso_del_mese.htm